LA DIGNITÀ DELLA VITA SEMPRE!!!
Ogni anno 30 italiani vanno a morire in Svizzera, ove l’eutanasia è legale sin dal 1942.
Questa è la drammatica statistica che ha riferito il presidente di Exit Italia, Associazione per il diritto a una morte dignitosa, che collabora con la Confederazione svizzera, in occasione della decisione di un noto magistrato italiano di recarsi a Basilea per mettere fine alla sua esistenza.
Pietro D’Amico, 62 anni, di Vibo Valentia, era stato procuratore generale aggiunto a Catanzaro, e nel 2007 si ritrovò indagato dalla procura di Salerno per presunte fughe di notizie sull’inchiesta Poseidone, condotta dall’allora pm Luigi De Magistris.
Da quelle accuse infamanti ne era uscito solo nell’aprile 2011 con richiesta di archiviazione della stessa procura campana e con il non luogo a procedere del Gip. Però, nel frattempo, D’Amico avevo lasciato la toga, perché riteneva di essere stato accusato di fatti troppo ignobili e che quel calice era troppo amaro da bere, per un uomo da tutti ritenuto trasparente, corretto e integerrimo, come persona e come magistrato.
Si era così chiuso nella sua delusione fino alla depressione, ma continuava a vivere una vita apparentemente normale, come raccontano i suoi parenti.
Nella solitudine e nel silenzio ha organizzato il suo ultimo viaggio nella clinica di Basilea, dove gli è stato praticato il suicidio assistito, tenendo all’oscuro di tutto la sua famiglia, che pensava fosse partito per uno dei suoi soliti viaggi in automobile.
Difatti è stato proprio un dipendente della clinica svizzera, che il 13 aprile, dopo il decesso dell’ex magistrato, avvenuto ingerendo una fiala sciolta in un bicchiere d’acqua, ha telefonicamente avvisato i suoi familiari, così come lui aveva espressamente richiesto.
Comprensibile il dolore misto alla rabbia della famiglia, che già si è rivolta ai propri legali per sapere come sia stata attuata la procedura per il suicidio assistito e capire come sia possibile che una semplice volontà di morire possa fare scattare la crudele procedura, permettendo alla clinica di lasciare totalmente all’oscuro le persone più care della volontà di morire di un proprio congiunto, magari anche malato e depresso, forse non del tutto capace di decidere per sé.
Questa triste storia ci fa tornare alla mente l’identica vicenda di Lucio Magri, uno dei fondatori del Manifesto, che nel novembre 2011, a 79 anni, prese la stessa incredibile decisione di voler morire in Svizzera, perché depresso, disperato e deluso di un’esistenza ormai vuota, fatta solo di speranze fallite.
Per non parlare della recente iniziativa messa su dai radicali di diffondere su quotidiani e reti tv nazionali un video-choc sull’eutanasia, insieme all’annuncio di una raccolta firme per una legge che legalizzi proprio l’eutanasia in Italia; in particolare le immagini raccontano la storia di una donna malata terminale che dall’Italia ricorre all’eutanasia in Svizzera, e descrivono proprio quel momento terribile in cui in clinica il medico le fa bere la dose letale.
Come si può accettare che in un Paese civile la disperazione di una donna sia utilizzata per una campagna a favore dell’eutanasia camuffata sotto il tema delle libertà individuali?
Inoltre del 25 aprile è la tragica notizia della morte di Daniela Cesarini, 66 anni, ex assessore ai servizi sociali del Comune di Jesi e candidata sindaco Prc alle amministrative 2012, che, dopo aver combattuto fin dall’infanzia con la poliomelite, che la costringeva su una carrozzina, è ricorsa al suicidio assistito in Svizzera, a Basilea, scegliendo in maniera simbolica proprio il giorno della liberazione per la sua dipartita.
Purtroppo non parliamo solo di loro, se pensiamo che ci sono almeno una trentina di italiani che ogni anno decidono questo loro ultimo viaggio in terra straniera, perché in Italia la legge non lo consente.
Non solo è terribile immaginare il dramma interiore che vivono coloro che decidono di impegnare tempo e denaro per intraprendere un viaggio senza ritorno, ma è anche ingiusto e straziante il dolore che sono costretti a vivere i loro parenti, ignari del gesto estremo, che da una telefonata di un medico sconosciuto devono ricevere la notizia della “dolce morte” del loro caro, senza poter dire o fare qualcosa per aiutarlo o comunque essergli vicino anche in quel difficile momento.
L’EUTANASIA IN SVIZZERA È LEGALE
Come già detto in Svizzera l’eutanasia è legale già dal 1942. Difatti la legge svizzera non considera il suicidio come un omicidio, purché non sia indotto da terze persone, per motivi personali o di soldi.
E la “dolce morte” e il suicidio assistito si continueranno a praticare, visto che gli abitanti di Zurigo si sono pronunciati in modo nettamente contrario al referendum che intendeva chiedere al Parlamento svizzero di rendere punibile qualsiasi forma di istigazione e di aiuto al suicidio e soprattutto a porre fine al “turismo della morte”, vietando ai non residenti del cantone da almeno 10 anni la possibilità di porre fine alla propria vita.
Nella Confederazione sono cinque le cliniche che praticano il suicidio assistito: a Basilea, Berna, Ginevra e due a Zurigo. Vere e proprie anticamere della morte, con servizio tutto-compreso, dal pernottamento alla cremazione, basta pagare una cifra che si aggira intorno ai sette mila euro e superare un test psicologico e una visita medica.
A occuparsi di tutto il resto, dall’acquisto dei medicinali alla prenotazione dell’hotel, per chi non abiti in Svizzera, ci pensano le associazioni no-profit che gestiscono le cliniche.
Per prassi nessuna comunicazione viene fatta nemmeno alle famiglie dei pazienti.
Ovviamente ciò non accade solo in Svizzera. Il suicidio assistito è legale in Colombia e negli Stati americani dell’Oregon, di Washington e del Montana. Ed in Europa, anche in Belgio, Lussemburgo e Olanda. Ma solo le cliniche della Confederazione offrono il servizio anche a cittadini stranieri, per questi i nostri connazionali si dirigono proprio lì.
Ed in effetti le cliniche svizzere lavorano soprattutto con gli stranieri. Su un totale di 1.138 persone assistite negli anni alla Dignitas di Forch, vicino a Zurigo, 118 venivano dalla Svizzera, 592 dalla Germania, 102 dalla Francia, 19 dall’Italia, 18 addirittura dagli Stati Uniti.
Dalle inchieste condotte dall’Istituto di medicina preventiva e sociale e da quello di medicina legale dell’Università di Zurigo risulta che l’eutanasia è proporzionalmente più frequente in Svizzera, in particolare l’“eutanasia passiva” (rinuncia ad avviare o sospensione di terapie di sostentamento vitale) e il “suicidio assistito”. Sette malati terminali su dieci ricorrono infatti ad una forma o all’altra di eutanasia per porre fine alla loro esistenza. L’unica forma di eutanasia punita dalla legge è quella cosiddetta attiva diretta, intesa come omicidio mirato a ridurre le sofferenze di un’altra persona, in particolare nel caso in cui il medico o un terzo somministra intenzionalmente al paziente un’iniezione che conduce direttamente alla morte.
Seguono l’Olanda (42 % ), la Danimarca (40 %), il Belgio (38 %) e la Svezia (36 %), mentre l’Italia è il Paese con la minor frequenza di casi di eutanasia (23 %).
LA LEGISLAZIONE ITALIANA SULL'EUTANASIA
Una legislazione italiana sull’eutanasia non esiste, come legge vera e propria, come in Olanda o in Belgio. Esiste, invece, la legge 578 del 1993 sull’accertamento della morte cerebrale, che regola le procedure da seguire nei casi in cui un paziente si trovi in rianimazione in condizioni critiche.
Dice la legge che “quando si verifica la presenza contemporanea di: stato di incoscienza, assenza di riflessi del tronco, silenzio elettrico cerebrale, allora l’anestesista rianimatore di guardia o il responsabile del reparto devono chiedere la costituzione di un collegio medico costituito da tre specialisti, un rianimatore, un medico legale e un neurofisiologo”.
Il collegio di specialisti procede all’osservazione del paziente secondo un protocollo stabilito dalla legge. I tempi di osservazione dipendono dall’età: 24 ore entro il primo anno di età, 12 ore da uno a cinque anni, e 6 ore oltre i 5 anni.
Dopodiché il collegio medico, in piena autonomia, in assenza di cambiamenti nella prognosi, accerta la morte cerebrale. Da quel momento si procede o al prelievo degli organi, se ci sono le condizioni e l’autorizzazione dei parenti. O si sospendono le cure, si “stacca la spina” e si dichiara la morte del paziente.
Inoltre in Italia la normativa penalistica ad oggi sembra ritenere ancora deplorevole chi aiuta un altro soggetto a morire; in particolare l’art. 579 del codice penale punisce, sotto il titolo “omicidio del consenziente”, con la reclusione da sei a quindici anni colui, che cagiona la morte di un uomo con il consenso di lui; altresì prevede l’applicazione della pena più severa fissata per il reato di omicidio nel caso in cui il consenso non sia valido, o perché la vittima è minorenne, inferma di mente, o minacciata.
Inoltre all’art. 580 viene punita anche l’istigazione o aiuto al suicidio, nel senso che “chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima”.
Il codice penale quindi punisce comunque chi aiuta un altro a morire, anche se lo fa meno severamente rispetto al classico reato di omicidio, cercando così di bilanciare il bene “indisponibile” della vita con la libertà di autodeterminazione di un soggetto.
Sull’attuale illegalità dell’eutanasia attiva pertanto non si discute, mentre si sta cercando di legalizzare la forma passiva, specie in capo ai medici a cui viene chiesto di astenersi dall’intervenire per tenere in vita il soggetto.
La storia però ci insegna che si è partiti da casi in cui in presenza di consenso valido è stato riconosciuto il diritto di lasciarsi morire rinunciando ad accanimento terapeutico, a situazioni drammatiche di uomini e donne in stato vegetativo permanente non in grado di intendere e di volere, a cui la giustizia ha riconosciuto arbitrariamente l’indegnità di quell’esistenza e quindi l’autorizzazione ai propri familiari di lasciarli morire di fame e sete, sospendendo la nutrizione artificiale o staccando il respiratore.
Non possiamo dimenticare la storia di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, che per decisione di alcuni giudici, su richiesta della famiglia, hanno terminato la loro esistenza terrena per mano dell’uomo e non di Dio.
Specie a seguito della drammatica e commovente morte di Eluana nel febbraio 2009, l’attenzione politica come quella pubblica si è fortemente mobilitata sulla necessità di redigere una legge chiara sul “testamento biologico”, tramite cui un soggetto nel pieno possesso delle sue facoltà mentali comunica anticipatamente la propria decisione. In assenza di una legge chiara e adeguata, infatti, si rischiava di lasciar decidere all’arbitrio della giustizia sulla vita e la morte di molte persone.
Per Eluana è stato così! Dopo 17 anni di stato vegetativo persistente e un lunghissimo iter giudiziario fatto di 10 procedimenti dal 1997 al 2008, suo padre Beppino ha ottenuto dalla Corte d’Appello di Milano il riconoscimento del diritto di interrompere i trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale.
Nei tre giorni che hanno preceduto il decesso di Eluana il Consiglio dei Ministri, sotto la Presidenza di Berlusconi, si è attivato per far approvare un provvedimento che impedisse la sospensione dei trattamenti, prima con un decreto che venne rigettato dal Presidente della Repubblica a causa di vizi di incostituzionalità, quindi con un disegno di legge immediatamente trasmesso al Senato.
Il 9 febbraio, mentre il “decreto salva-Eluana” era in discussione in sessione straordinaria, a palazzo Madama giunse la notizia della morte della ragazza.
La disperata lotta contro il tempo e le reazioni scomposte del Senato resteranno una delle pagine più nere della storia del Parlamento italiano.
Il Governo ha ritirato, quindi, il disegno di legge con l’obiettivo di discutere un testo più articolato relativo al testamento biologico e alla disciplina dei casi di fine vita. È nato così il Disegno di Legge Calabrò (disegno di legge 10-B «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento»), depositato il 26 marzo 2009, che prevede, tra le altre cose, che alimentazione e idratazione artificiale siano “forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita” e pertanto “non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”, vietando comunque eutanasia e suicidio assistito. Le dichiarazioni anticipate di trattamento, valide cinque anni, sono qualificate come “orientamenti e informazioni utili per il medico, circa l’attivazione di trattamenti terapeutici”. Orientamenti che però non possono riferirsi ad alimentazione e idratazione, che “devono essere mantenute fino al termine della vita, a eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente in fase terminale i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo”.
Il testo legislativo, composto di otto articoli, è stato oggetto di un serrato dibattito in aula fino a luglio del 2011, quando il sopraggiungere della crisi politica ha fatto sì che venisse messo da parte.
Dal 19 settembre 2012, la commissione Sanità del Senato ha voluto riavviare l’iter del provvedimento (ormai in terza lettura, poiché il testo era stato approvato prima dal Senato e poi con modifiche dalla Camera), nel disinteresse dei media e nel silenzio di un dibattito pubblico mai realmente aperto.
Ora la fine del Governo tecnico e l’insediamento della nuova legislatura ha di certo frenato questo nuovo impeto in favore del testamento biologico, che comunque prendeva le mosse anche da forti impulsi europei; tra tutti quello dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa che ha raccomandato, il 25 gennaio 2012, che tutti i quarantasette Stati dell’Unione Europea agiscano per rendere legale il testamento biologico, mentre ha scelto di non pronunciarsi su eutanasia e suicidio assistito.
Ad oggi, pertanto, l’Italia è ancora in attesa di una espressa legislazione che definisca i contenuti del testamento biologico e delimiti ciò che è lecito da ciò che è illecito.
IL BENE PRIMARIO DELLA VITA
La tematica del fine-vita ha sempre rappresentato un argomento delicato, quasi da parlarne sottovoce, proprio per quel senso di sproporzione che ci invade quando parliamo della vita e della morte, e che rimane inevitabilmente anche nel momento in cui l’uomo crede di esserne padrone.
Ed è così delicato che neanche il nostro legislatore riesce a dare forma alle sempre più allarmanti richieste di legalizzare il suicidio assistito provenienti particolarmente da associazioni culturali pro-eutanasia.
La vita è evidentemente un dono, cioè non ce la diamo da soli, non siamo in grado di costruirla dal nulla da soli, magari non la chiedono neanche i genitori, ma arriva spesso in maniera inaspettata e sorprendente, nel momento in cui si segue il diritto naturale delle cose. È un dono prezioso, dal concepimento fino alla sua fine, ed in ogni momento ha la sua dignità ed utilità.
Non si può negare che la storia di Eluana, di Piera, di Daniela e di Pietro, solo per ricordare quelle più recenti, lascia l’amarezza nel cuore, fosse solo per quella condizione di solitudine in cui si sono più o meno volutamente ritrovati nel momento della morte.
La sensazione è che non ci si trova più nell’ambito di una mera ideologia ma in qualcosa che vuole diventare mentalità generale, strutturata e concreta, quando si dice che l’uomo deve essere libero di vivere e di morire, specie se la sua esistenza non gli corrisponde più.
Difatti questo pensiero di morte non sta più angosciando solo malati terminali o addirittura in stato vegetativo, ma anche uomini e donne autosufficienti, magari preda della depressione o della solitudine.
Se pensiamo al magistrato D’Amico, che aveva fatto della sua esistenza una missione per la giustizia, insomma un uomo di legge, nasce inevitabilmente il forte timore che il suo gesto crei un importante precedente, perché la decisione è assunta da un esperto di diritto che fa divenire l’eutanasia non è più solo affare che attiene al dolore fisico e psichico, ma è questione che attiene alle leggi, con una sorte di placet di carattere giuridico all’eutanasia stessa.
E poi non può lasciare indifferenti come questa spietata procedura artificiale di morte permetta alla persona di non dire nulla alla propria famiglia di questa triste scelta, di andarsene da soli, facendo divenire il morire un affare privatissimo, libero e svincolato da qualsiasi pressione esterna, in virtù dell’affermazione di una “libera” determinazione personale.
Così la scelta diventa proprio inappellabile, se non si permette agli affetti più cari di dare un’ultima parola di conforto o di speranza, capace magari di far riaccendere una scintilla di vita.
Come si può avvicinare la parola assistito al suicidio? La donna durante il parto viene assistita, un moribondo nei suoi ultimi momenti di vita è assistito, un bambino o un malato viene assistito per ciò che non può fare da solo, ma quale sostegno o aiuto, materiale e morale, si offre nell’uccidere una persona o comunque nell’impedire che la stessa si tolga volontariamente la vita?
Ma allora la vita è un diritto rinunciabile? Non è più un caposaldo intoccabile tra i diritti fondamentali dell’uomo, da difendere fin dal suo inizio? Basta che viene meno un prestabilito ed ideologico criterio di meritevolezza o di dignità per poterla eliminare? Quindi paradossalmente per un medico soccorrere o sopprimere una vita diventa la stessa cosa, se il diritto a morire è meritevole di tutela quanto quello a vivere.
E sembra altrettanto paradossale che il grido di dolore e di solitudine di una donna, che chiede un senso per la sua sofferenza, trova solo i fautori della “dolce morte”, che con il favore di tv nazionali e di quotidiani diffondono per un’intera giornata l’agghiacciante video senza trovarci nulla di disumano o di illegale. E ci vogliono pure far credere che questa è libertà!
In ogni civiltà degna di essere ancora considerata tale, ciascun essere umano vale sempre, così come lo tutela nel suo complesso la nostra Costituzione.
Quindi sarà inevitabile chiedere alla legge di intervenire a regolare una troppo arbitraria mentalità dilagante, anche tra i nostri giudici, che forti di una lacuna normativa si arrogano il diritto di dire quale vita vale la pena vivere e quale interrompere…quella stessa mentalità che magari ha convinto il giudice D’Amico a scegliere la via di saltare la burocrazia italiana, e rivolgersi alla “libera” Svizzera.
La vita è la cosa più preziosa che il Creatore ci ha donato e nessuno ha il diritto di buttarla via, né tanto meno di far credere che possa diventare inutile se non corrisponde a dei canoni prefissati.
Questo non vuole dire che ci facciamo fuori dal dolore di coloro che in estrema solitudine decidono l’insano gesto di morire per mano di un altro uomo, ma desideriamo ricordare, prima di tutto a noi stessi, di essere creature amate e desiderate sin dal grembo materno, ognuna originale in sé, soggetti finiti ed imperfetti ma incredibilmente fatti a immagine e somiglianza di Dio, proprio per la sovrabbondanza del Suo Amore, che solo è capace di dare e ridare dignità e speranza alla nostra esistenza, anche martoriata dal peccato e dalla malattia fisica e morale.