Beethoven

Testimone dell'espressione del Divino in sé

C’è l’uomo Ludwig da scoprire...

31 Luglio 2021

Approfondimento di Simona Cursale

Ludwig van Beethoven è stato un compositore, pianista e direttore d'orchestra tedesco, una figura che ha fortemente influenzato i compositori di tutti i tempi, fino ai giorni nostri. Ai più è noto il fatto della sua sordità, che lo colpì non ancora trentenne, ma oltre il fenomeno del compositore colpito da sordità c’è l’uomo Ludwig da scoprire. Artisticamente viene considerato l’ultimo rappresentante del classicismo viennese e contemporaneamente precursore del Romanticismo.

Ludwig van Beethoven è stato un compositore, pianista e direttore d'orchestra tedesco, una figura che ha fortemente influenzato i compositori di tutti i tempi, fino ai giorni nostri. Ai più è noto il fatto della sua sordità, che lo colpì non ancora trentenne, ma oltre il fenomeno del compositore colpito da sordità c’è l’uomo Ludwig da scoprire. Artisticamente viene considerato l’ultimo rappresentante del classicismo viennese e contemporaneamente precursore del Romanticismo. La sua arte viene definita “eroica” per l’impronta classica che si distingue dalle composizioni contemporanee per la forza espressiva e la capacità di evocare emozioni. Beethoven compone, negli anni più difficili della sua vita, una musica capace di trasmettere le sue esperienze personali e le sue emozioni, mantenendo l’equilibrio compositivo come l’adesione alle regole dell’armonia nelle modulazioni tipiche della tradizione musicale classica.

Musica classica madre della nostra musica contemporanea Non sono e non mi ritengo certo un’esperta di musica. Ma l’adesione a Cristo spalanca un orizzonte nuovo su tutte le cose, suscita interesse e passione anche per ciò che inizialmente non lo aveva, perché Cristo è consistenza di tutte le cose, quindi in tutte le cose possiamo rintracciare la Sua presenza delle quali è origine e compimento. Solo dentro questo riconoscimento è veramente possibile scoprire e conoscere se stessi, l’ampiezza, la profondità, la larghezza come l’altezza di ciò che il Creatore ha inscritto nel nostro cuore e che solo un Altro può svelarci nella sua interezza; è proprio l’esperienza di questa più profonda conoscenza di Lui, dentro un’esperienza continua, di Colui per cui il nostro cuore è fatto che si può conoscere veramente se stessi anche nell’ampiezza di un interesse, di una passione verso la scoperta di cose che inizialmente sentivi distanti. Ed è un procedere di stupore in stupore. Per questo da qualche anno, nella stima che questa Amicizia ha favorito in me e di me - a partire dall’indomabile paternità di Nicolino - che è cresciuta, nel tempo, una passione per la musica ed in particolar modo per la musica classica. Uno stile musicale che non ho mai studiato e a cui non ho mai pensato di avvicinarmi, credendo, pregiudizialmente, che non avesse nulla a che fare con me. Aver iniziato ad intuire quanto di me, dell’uomo interamente inteso, si possa rintracciare nella musica classica - come più facilmente mi accade di rintracciare in un’opera d’arte -, mi ha portato ad approfondire anche questa forma d’arte, attraverso cui alcuni geni musicali si sono espressi. Ed è una scoperta continua! La musica classica è madre della nostra musica contemporanea (anche se dovremmo andare più indietro nel tempo, fino al gregoriano per rintracciare la radice della nostra musica) e, contro ogni previsione, la nostra musica è piena di questa tradizione, a volte anche in maniera esplicita con vere e proprie citazioni, soprattutto nella musica rock. Un dipinto, come l’architettura, tanto quanto una scultura, come l’armonia di una musica, esprimono, in genere, bellezza, suscitano uno stupore, a volte una sproporzione, che sono indicativi dell’impatto con qualcosa di bello, che ci fa sobbalzare il cuore, ci suscitano un’emozione, a volte riescono a toccare le corde più profonde del nostro essere. L’arte è quindi espressione di una bellezza di cui sentiamo essere esigenza, di cui abbiamo bisogno di nutrirci, ma solo perché è riflesso, è segno della Bellezza suprema, che è Dio stesso.

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Lettera di Waldstein a Beethoven, ottobre 1792: «Ricevete dalle mani di Haydn lo spirito di Mozart»

“Artista eroico” “Artista eroico” è la definizione che viene data a Beethoven, ma è un termine che non deve confondere, non va infatti inteso nell’accezione di artista ideale, di super uomo, privo di drammaticità, di fatica, di fragilità. Tutt’altro. In questo termine, “eroico”, va rintracciata la costante aspirazione a qualcosa di grande. È questa tensione continua a ciò che di più alto e nobile aspira il cuore che si è fatta musica attraverso il suo incredibile genio. Il senso di grandioso trasuda dalle note delle sue composizioni diventando la cifra dei suoi capolavori. Una grandiosità che è al contempo tensione al sublime. Sublime inteso come sproporzione percepita dall’uomo di fronte alla maestosità della realtà, come senso di piccolezza, di finitezza e contemporaneamente esigenza di infinito, di assoluto, di eterno. Attraverso la sua esperienza umana segnata da una terribile sordità iniziata ad essere percepita a 26 anni (terribile ancor più per un musicista e compositore della sua portata) e la grandiosità della sua musica come espressione di una tensione assoluta, sentiamo rappresentata tutta l’ampiezza dell’esperienza umana. In quello che è considerato il suo testamento, scritto nel 1802 ad appena 32 anni e rivolto ai suoi fratelli, Beethoven afferma: O voi uomini che mi stimate o mi definite astioso, scontroso o addirittura misantropo, come mi fate torto! Voi non conoscete la causa segreta che mi fa apparire a voi così. Il mio cuore e il mio animo, fin dall’infanzia, erano inclini al delicato sentimento della benevolenza e sono sempre stato disposto a compiere azioni generose. Considerate però, che da sei anni mi ha colpito un grave malanno peggiorato per colpa di medici incompetenti… …ora sono rassegnato – Dio Onnipotente, che mi guardi fino in fondo all’anima, che vedi nel mio cuore e sai che esso è colmo di amore per l’umanità e del desiderio di bene operare. O uomini, se un giorno leggerete queste mie parole, ricordate che mi avete fatto torto; e l’infelice tragga conforto dal pensiero di aver trovato un altro infelice che, nonostante tutti gli ostacoli imposti dalla natura, ha fatto quanto era in suo potere per elevarsi al rango degli artisti nobili e degli uomini degni.

Concerto n.4 per pianoforte e orchestra Tra le sue composizioni mi ha molto colpito il concerto n.4 per pianoforte e orchestra scritto nel 1806, pochi anni dopo questo testamento, già nel vivo della sua sordità e solitudine. Che lui possa scrivere musica in questa condizione è già di per sé un fatto straordinario, ma possibile solo per quello che lui stesso scrive: “Ogni vera creazione d'arte è indipendente da colui che l'ha realizzata, più potente dell'artista stesso e ritorna al Divino attraverso la sua manifestazione. In questo è un tutt'uno con l'uomo: che è testimone dell'espressione del Divino in sé”. La musica che gli pulsa dentro con questa consapevolezza, come un imperativo che è Altro da sé e che non può contenere è ciò che lo aiuta ad affrontare la sua condizione. Che cosa mi ha colpito di questo concerto? Nel primo movimento c’è un pianoforte dolcissimo e struggente che è il protagonista della composizione, come mai era accaduto prima nella storia della composizione concertistica. Il concerto inizia con un tema armonioso, gioioso e in crescendo, quasi fosse il preludio di una nuova vita che nasce o rinasce, si scopre amata, voluta, desiderata. Questa presenza, ad un certo punto, arriva - entra il pianoforte - vivace, allegro, giocoso come un bambino perché accolto da una realtà buona o nella gioia dell’incontro con una presenza che è stata capace di rispondere al bisogno costitutivo del cuore. Poi il movimento varia, si fa ora più giocoso ora più malinconico, fino a toccare le corde più drammatiche, come è la vita. Gioie e dolori, pace e inquietudini, dolcezza e amarezza si alternano e convivono. Nel secondo movimento l’orchestra avanza minacciosa e sembra sopraffare il pianoforte stesso. In un immaginario dialogo tra i due interlocutori, incredibilmente sarà il pianoforte a portare l’orchestra a seguirlo nel tema prima malinconico poi drammatico, come il grido accorato di un padre verso i suoi figli, pieno di sentimento amoroso come di un uomo verso la sua amata di cui desidera la piena felicità, diventando struggente nel finale. Nel terzo movimento questa sequela sembra compiersi. Ed è una sequela libera, certa, gioiosa, piena di fiducia, non senza l’emergere di tensioni, ma in un rapporto vivo e tra due personalità affermate e tese dalla stessa parte. Voglio premettere che quello che scriverò non ha alcuna pretesa, non è ciò che Beethoven ci ha lasciato come intento di questa composizione, ma è ciò che questo brano mi ha suscitato, ampliando e facendo mia la lettura anche della critica più specialistica. In questo pianoforte, quindi, rintraccio l’immagine di un padre. La voce di un padre a tratti dolce, altri forte e certa che abbiamo bisogno di ascoltare, soprattutto nell’attuale condizione di smarrimento che la pandemia ha provocato - ma direi ha più fatto emergere come una condizione già presente - perché ci indichi la strada. Questo pianoforte è una presenza certa, faro sicuro tra i marosi della vita che ci indica, ci mostra, ci testimonia, irriducibilmente, con il dono incondizionato di sè, chi è quella "presenza viva e reale che è sola capace di riempire continuamente il cuore di una rinnovata certezza sulla quale fondare la vita in ogni momento del nostro rapporto con la realtà, e che ci rende capaci di attraversare l’avventura drammatica della nostra condizione umana: Gesù Cristo!" (cfr. Cristo vive! Volantino di Pasqua 2019). Nell’orchestra, invece, possiamo rintracciare l’immagine della nostra umanità, che, orgogliosa, superba, a volte contrasta l’amore di questo padre in maniera capricciosa, egoista, arrogante, presuntuosa. Eppure, nonostante questa ostinata posizione, la voce del padre continua imperterrita, irriducibilmente a “parlare”, vuole vincere l’ostinata misura dei suoi figli, che non sono mai abbandonati ma continuamente perdonati, rialzati nell’amore. In questo incedere del pianoforte si può intravedere l’amorevole insistenza di un padre che rinnova fiducia, stima ai suoi figli, è sempre dentro un’ultima irriducibile positività, anelando per ciascuno la vera felicità del cuore! È come il Dio di Israele che si ravvede di fronte al tradimento del suo popolo e anziché scagliarsi contro rinnova la sua alleanza, “continuerò ad operare meraviglie e prodigi con questo popolo” (Is 29,14); è l’attesa instancabile, infiaccabile del padre nella parabola del figliol prodigo; è paradigma dell’Essere di Dio che è solo amore per ogni suo figlio, come dell’umanità intera, che arriva a donare il suo unico figlio in Gesù Cristo attraverso il sì di una ragazzina di nome Maria. Ascoltando il terzo movimento, armoniosa sinfonia di tutti gli strumenti in gioco, mi tornano quindi in mente queste parole di Péguy con le quali chiudo questa guida personale all’ascolto. Chiedete a questo padre se il momento migliore non è quando i suoi figli incominciano ad amarlo come degli uomini, lui stesso come un uomo, liberamente, gratuitamente, chiedete a questo padre i cui figli crescono. Chiedete a questo padre se non c’è un’ora segreta, un momento segreto, e se non è quando i suoi figli incominciano a diventare degli uomini, liberi, e lui stesso lo trattano come un uomo, libero, lo amano come un uomo, libero, chiedete a questo padre i cui figli crescono. Chiedete a questo padre se non c’è un’elezione fra tutte e se non è quando la sottomissione precisamente cessa e quando i suoi figli divenuti uomini lo amano, (lo trattano), per così dire da intenditori, da uomo a uomo, liberamente, gratuitamente. Lo stimano così. Chiedete a questo padre se non sa che niente vale uno sguardo d’uomo che s’incrocia con uno sguardo d’uomo. Ora io sono loro padre, dice Dio, e conosco la condizione dell’uomo. Tutte le sottomissioni di schiavi del mondo non valgono un bello sguardo d’uomo libero. O meglio, tutte le sottomissioni del mondo mi ripugnano e darei tutto per un bello sguardo d’uomo libero a questa libertà, a questa gratuità io ho sacrificato tutto, dice Dio, a questo gusto che ho d’essere amato da uomini liberi, liberamente, gratuitamente, da veri uomini, virili, adulti, saldi. Nobili, teneri, ma di una tenerezza salda. Per ottenere questa libertà, questa gratuità ho sacrificato tutto, per creare questa libertà, questa gratuità, Per fare entrare in gioco questa libertà, questa gratuità. Per insegnargli la libertà. (tratto da Il Mistero dei Santi Innocenti) Ha sacrificato tutto facendo assumere nella carne di un Uomo, il suo unigenito Gesù Cristo, tutto il peccato dell’uomo perché, sul legno di una croce, con la sua tremenda, inaudita e ingiusta messa a morte e poi con la sua Resurrezione, lo potesse redimere, salvare, liberare dal gioco della morte e renderlo veramente libero. La morte non ha più l’ultima parola sull’uomo, il buon ladrone accede per primo, per la fede di un istante, al Paradiso insieme a Gesù. Si spalanca l’orizzonte della vita eterna. È questo dono di sé, questo sacrificio d’amore che dà senso alla nostra vita che siamo chiamati a testimoniare nella vita di ogni giorno, e proprio perché preferiti da questo amore incondizionato, “mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8), possiamo traboccare di un amore e di una passione commossa per la vita, per il bisogno e il destino di ogni uomo. Suggerisco una versione, forse un po' datata, ma straordinaria di due grandi interpreti italiani: Maurizio Pollini al pianoforte e l’orchestra European Union Youth Orchestra condotta dal M.o Claudio Abbado. Adesso, veramente, buon ascolto!  

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