“Una terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, come l’ha definita Papa Francesco, è in atto in diversi Stati del nostro pianeta. Diciotto milioni e mezzo, stando a stime recenti, i profughi che scappati da questi territori bussano alla porta della nostra coscienza. di Massimiliano Gaetani “Fraternità tra persone di ogni nazione e cultura. Fraternità tra persone di idee diverse, ma capaci di rispettarsi e di ascoltare l’altro. Fraternità tra persone di diverse religioni. Gesù è venuto a rivelare il volto di Dio a tutti coloro che lo cercano. E così, con la sua incarnazione, il Figlio di Dio ci indica che la salvezza passa attraverso l’amore, l’accoglienza, il rispetto per questa nostra povera umanità che tutti condividiamo in una grande varietà di etnie, di lingue, di culture…, ma tutti fratelli in umanità!”. Così Papa Francesco in occasione del Messaggio Urbi et Orbi dello scorso Santo Natale. Solo in questo modo diventano possibili nelle relazioni internazionali il dialogo e la reciproca comprensione. “Allora – continua il pontefice – le nostre differenze non sono un danno, sono una ricchezza. Come per un artista che vuole fare un mosaico: è meglio avere a disposizione tessere di molti colori, piuttosto che di pochi!”. Basterebbe “tanto poco” perché i conflitti che insanguinano l’intero pianeta trovino finalmente una soluzione. L’egoismo, gli interessi di parte, il desiderio di prevaricazione dell’uno sull’altro, del più forte sul più debole le cause scatenanti; all’origine di essi a volte anche motivi religiosi. Parecchi sono purtroppo passati sotto silenzio, di essi nessuno parla perché non fanno notizia. Nonostante ciò continuano ad interpellare le coscienze di tutti, particolarmente dell’Europa occidentale industrializzata, che per contro si mostra indifferente, se non addirittura scettica e piena di pregiudizi, difronte al dolore dei propri fratelli, quasi che la questione non la riguardasse o fosse solo un loro problema. Ma quali sono gli Stati in guerra? La situazione che da anni regna in Medio Oriente sarebbe quella di una vera e propria guerra. In effetti, la dichiarazione di Camp David del 2000, sottoscritta dal Primo Ministro israeliano Ehud Barak e dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat davanti al presidente degli Stati Uniti Bill Clinton che indicava l’obiettivo di “porre fine a decenni di conflitto e raggiungere una pace giusta e duratura” non ha mai prodotto i suoi effetti. E il conflitto israelo-palestinese, secondo l’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo messo a punto da un gruppo di giornalisti e ricercatori, è solo una delle trentasei guerre che ad oggi si stanno combattendo sulla Terra. Nel 2015, di ritorno dal suo viaggio a Sarajevo, Papa Francesco riferendosi a questo e a tutti i conflitti che in varie parti del pianeta provocano distruzione e morte aveva parlato di “una terza guerra mondiale combattuta a pezzi”. Quello che affligge lo Yemen, attualmente il Paese più povero del mondo, nasce come scontro fra i ribelli sciiti del Nord contro il governo di Abed Rabbo Mansour Hadi, appoggiato dall’Occidente. Ciò ha prodotto l’intervento dell’Arabia Saudita, appoggiata dagli Stati Uniti, e dell’Iran a fianco delle fazioni contrapposte. Questa situazione è diventata il terreno fertile per la proliferazione di Al-Qaeda, che proprio nello Yemen ha la cellula più forte, cioè AQAP (Al-Qaeda in the Arabian Peninsula), e dell’Isis. Le vittime ammontano a più di diecimila. Dal 2011 la Siria è dilaniata da una guerra civile, iniziata con l’obiettivo di ottenere le dimissioni del presidente Bashar al-Assad. A questo conflitto, che ha causato sinora trecentomila morti, sei milioni di sfollati e cinque di rifugiati, si sono aggiunti l’insediamento e l’attività dello Stato islamico. Il continente più colpito è l’Africa, con quattordici situazioni di conflitto. Intere moltitudini di persone sono costrette a fuggire da vari Paesi dell’Africa centrale, particolarmente della fascia subsahariana. Fra i territori in questione, il Ghana, il Ciad, la Nigeria, l’Eritrea e il Sud Sudan. In nessuno di essi vige un regime democratico né vi è un’istituzione che prenda minimamente in considerazione i diritti umani fondamentali. La vita degli abitanti di questi Stati si ritrova inevitabilmente ad essere dominata dal potere di un dittatore o di un regime oppure è del tutto precaria e costantemente minacciata dalla mancanza di un governo che tuteli le persone. Il Ciad, uno dei Paesi più poveri della Terra, combatte guerre interne ed esterne da decenni. Dopo quella con il Sudan (2005-2010) ora è in conflitto con il gruppo jihadista Boko Haram, molto attivo nella vicina Nigeria. In Sudan invece è in corso una guerra civile pluriventennale. Il Darfur, una zona grande quanto due volte l’Italia, è teatro di un violentissimo conflitto fra gruppi armati locali e le milizie filo-governative. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 2003 ad oggi sono morte oltre settantamila persone. Una “guerra mondiale africana”, com’è stata definita, vede scontrarsi nel Congo gli eserciti regolari delle multinazionali per il controllo dei ricchi giacimenti di diamanti, oro, coltan - una sabbia nera, presente nei condensatori dei cellulari e dei computer – e cobalto, utilizzato per le batterie dei telefonini. Uno scontro che si combatte tra affarismo e ipocrisia nel più assoluto silenzio dei mass media ufficiali. Circa sei milioni le vittime, se, oltre alle armi, si considerano le carestie e le malattie causate dai combattimenti. Da anni la Libia vive una situazione di forte instabilità politica, a causa di guerre e tensioni interne. Qui due governi si contendono la legittimazione e il controllo del Paese. Uno, che ha sede a Tripoli, il Governo di Accordo Nazionale, gode dell’appoggio delle Nazioni Unite, il secondo, noto come Governo Provvisorio, è a Tobruch. A queste due fazioni si è aggiunto lo Stato Islamico (Isis), senza contare le varie tribù. Come se ciò non bastasse, questo è un territorio di passaggio per quasi tutti i migranti che dall’Africa si dirigono in Europa. Infatti la maggior parte di loro e dei richiedenti asilo che riesce a raggiungere il nostro continente via mare parte con imbarcazioni proprio dalla Libia. Molti di loro finiscono in detenzione qui dove subiscono percosse, estorsioni, sequestri e violenze sessuali per mano di guardie, milizie e contrabbandieri. L’ultima denuncia di atti di questo genere proviene dall’Onu e si rivolge alle forze di guardia costiera libica. Alcuni prigionieri vengono sottoposti alle torture più efferate per costringere i loro parenti a pagare il riscatto. Una guerra infinita è quella che affligge la Somalia, che, dalla caduta del dittatore Mohammed Siad Barre nel 1991 non conosce pace. Un governo federale appoggiato dalle Nazioni Unite cerca di mantenere il controllo del Paese, ma è ostacolato dai ribelli dell’Unione delle corti islamiche e dai gruppi di Al-Shabaab legati al terrorismo jihadista. Dopo la decennale guerra tra le due maggiori componenti etniche, i Tutsi e gli Hutu, il Burundi, ex colonia belga, dall’aprile 2015 è piombato sotto la dittatura di Pierre Nkuruniza che si è macchiata di arresti, torture, sparizioni, esecuzioni sommarie e fosse comuni. La Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) parla di milleduecento morti accertati, tra i quattrocento e i novecento casi di sparizione e oltre diecimila detenzioni arbitrarie. Continua ad essere ancora in guerra il Mali provato da un confitto iniziato nel 2012 con la dichiarazione di secessione del Nord del Paese, abitato dai Tuareg, e la successiva invasione di questo territorio da parte di forze islamiste appoggiate da formazioni autoctone. Questa situazione, insieme ai cambiamenti climatici, a una crescente popolazione giovanile, alla mancanza di lavoro e all’urbanizzazione non controllata sta provocando un aumento della migrazione e favorendo il traffico di esseri umani. L’Eritrea, in cui non ci sono elezioni dal 1993, è di fatto un regime dittatoriale, senza libertà politiche né di associazione, senza potere giudiziario e fonti d’informazione indipendenti. Le tensioni con la vicina Etiopia restano alte e la minaccia di un ritorno in guerra è usata dal governo per giustificare il regime oppressivo. Nonostante la costituzione preveda il multipartitismo, nel Paese è presente un unico partito, quello del presidente Isaias Afewerki. I periodi di conflitto prolungati e la grave siccità hanno influenzato negativamente l’economia – una delle più povere del continente – basata principalmente sull’agricoltura. Sul governo grava l’accusa da parte delle Nazioni Unite di crimini contro l’umanità. Secondo le stime Onu, centinaia di migliaia di eritrei sono fuggiti dal Paese negli ultimi anni, intraprendendo un pericoloso viaggio attraverso il Sahara e il Mediterraneo, fino all’Europa. Per legge, ogni eritreo è costretto alla leva obbligatoria di diciotto mesi, ma in pratica il periodo di servizio militare è indefinito, durando spesso più di un decennio. È questo uno dei motivi che spinge la popolazione a scappare. La leva è considerata alla stregua della schiavitù e i soldati sono spesso costretti ai lavori forzati, oltre che ad abusi fisici e torture. Il servizio militare “perenne” che può prolungarsi anche per tutta la vita diventa così totalizzante da impedire il normale svolgimento della vita privata dei cittadini. L’Eritrea viene spesso definita “la Corea del Nord dell’Africa”, o “prigione a cielo aperto”. Sono all’ordine del giorno esecuzioni extragiudiziali e schiavitù sessuale, oltre al lavoro forzato. Secondo il rapporto dell’Onu, il governo di Asmara è responsabile di diffuse violazioni dei diritti umani e repressioni. I salari dei soldati variano dai cinquecento ai settecentocinquanta nakfa (la moneta locale), cioè dai trenta ai quaranta euro al mese che non sono assolutamente sufficienti a garantire una vita dignitosa. Nei recenti rapporti di Amnesty International sui diritti umani si delinea un quadro disastroso della situazione politico-sociale del Paese africano. L’organizzazione parla di “restringimento dello spazio politico e negazione persistente dei diritti fondamentali”. In Eritrea – prosegue il rapporto – non è presente nessuna opposizione politica, non esistono partiti, media indipendenti, né è permesso alle organizzazioni civili di operare. Migliaia di prigionieri politici e “di coscienza” (coloro che vengono imprigionati sulla base di alcune caratteristiche come razza, religione, colore della pelle, lingua, orientamento sessuale e credo politico) continuano ad essere detenuti arbitrariamente senza un processo. Secondo Amnesty International, dal 1993 ad oggi sono state diecimila le persone recluse senza un procedimento giudiziario. La tortura e altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti sono all’ordine del giorno. Il dissenso è costantemente represso e qualunque critica al governo può costare cara. I motivi della detenzione arbitraria di prigionieri sono tanti: dalla critica all’operato del governo allo svolgimento della professione giornalistica, dalla pratica di una religione non riconosciuta dallo Stato alla diserzione del servizio militare, fino al tentativo di fuga dal Paese. In tutti questi casi l’arresto e la detenzione senza un processo sono estremamente diffusi, tanto da infondere tra i cittadini eritrei il terrore per qualsivoglia comportamento, pubblico o privato che sia. Migliaia di cittadini – in particolare attivisti, dissidenti e giornalisti – sono incarcerati senza un giusto processo. Nell’ex Birmania, l’attuale Myanmar, si sta consumando un vero e proprio genocidio, una “pulizia etnica”, a danno dei Kachin, minoranza per lo più di religione cristiana dell’omonimo stato settentrionale, vicino al confine con la Cina. È in corso infatti un cruento conflitto tra i guerriglieri dell’esercito di indipendenza del Kachin e le milizie governative. A farne le spese migliaia di civili, contro i quali le forze armate hanno usato artiglieria pesante e raid aerei. Una guerra che sebbene abbia costretto seimilaottocento abitanti a lasciare le proprie abitazioni a causa dei colpi di mortaio e degli scontri a fuoco è ignorata dalla comunità internazionale. Dietro la volontà del governo centrale di controllare il Kachin ci sarebbero interessi economici legati alle miniere d’ambra e di giada. Dal 2003 l’Iraq, schiacciato dalla guerra e in balia dei settarismi interni (sanniti e sciiti) è un Paese devastato che oggi s ritrova a fare i conti con la minaccia dell’Isis, presente sul territorio. Il 2019 porta con sé un triste anniversario per l’Afghanistan, che entra nel quarantesimo anno consecutivo di guerra. Invasione sovietica, scontri tra civili, insorgenza talebana, invasione statunitense, ascesa dell’Isis: in tutto questo tempo il conflitto si è delineato in tutte le sue diverse sfumature dilaniando il Paese. Il punto focale dello scontro tra India e Pakistan è la valle del Kashmir, un’area particolarmente ricca e fertile che si trova nel nordest dell’India, a più di millecinquecento metri. Non accenna a placarsi la guerra tra Russia e Ucraina. Dall’aprile 2014 nella regione del Doubass (una zona di confine) si fronteggiano i separatisti, appoggiati dalla Russia, tra cui ci sarebbero anche diversi miliziani italiani, e l’esercito regolare ucraino, che gode del supporto del mondo occidentale. Oltre alle rivendicazioni politiche – la volontà dell’Ucraina di staccarsi sempre più dall’influenza di Mosca - in ballo ci sono anche interessi economici legati ai giacimenti di gas. Lo scorso 27 aprile i leader delle due Coree, divise da settanta anni, sono stati protagonisti di uno storico incontro nel corso del quale hanno promesso la pace in tutta la penisola e lo stop al nucleare. Il mondo, il Papa in primis, auspica che prosegua il cammino di avvicinamento intrapreso e si giunga a soluzioni condivise che assicurino a tutti sviluppo, benessere e la fine delle ostilità. Sono sei gli Stati e ventisette tra cartelli della droga, guerriglie, gruppi terroristici, separatisti e anarchici che turbano la terra americana. Le situazioni più critiche sono in Colombia e in Messico, per la guerra contro i gruppi ribelli e quelli del narcotraffico. Non si accenna inoltre a placare la tensione in Venezuela, vittima del dispotismo di Maduro. Guerra civile o intervento militare da parte di una coalizione straniera sono, nel momento in cui il presente articolo viene scritto, gli scenari possibili sulla delicata questione del Paese sudamericano, da dove diversi profughi cercano di scappare diretti verso i vicini Colombia e Perù. Non cessano tuttavia gli sforzi di chi auspica una soluzione pacifica: l’Unione Europea e l’Uruguay. L’autoproclamato presidente ad interim, il deputato Juan Guaidò, continua a riscuotere consensi internazionali. Nicolas Maduro esclude di voler convocare nuove elezioni presidenziali, come richiesto dal Parlamento, per il quale le votazioni del maggio scorso non sono da riconoscersi valide, bensì fraudolente. I camion contenenti aiuti umanitari (cibo e medicine) inviati dalla comunità internazionale faticano ad entrare in Venezuela in seguito all’opposizione degli uomini di Maduro che ricorrono anche agli incendi pur di fermarli. Dai luoghi di guerra – per ragioni di spazio in quest’articolo ne sono stati citati solo alcuni - moltitudini di esseri umani, prim’ancora che profughi, sono costretti a fuggire. Secondo un sondaggio dell’Unchr risalente al 6 giugno 2018 – una stima a distanza di tempo sicuramente aumentata – ammontano a sessantotto milioni e mezzo. Ma chi sono i rifugiati? Qual è la differenza con i migranti? E ancora, quali sono i loro diritti? Il termine “migrante” viene usato in maniera generica per indicare chi lascia volontariamente il proprio Paese d’origine per cercare un lavoro e condizioni di vita migliore. A differenza del profugo, non è necessariamente perseguitato nella sua patria e può farvi ritorno senza alcun particolare rischio. Completamente diversa è invece la condizione dei rifugiati. Nel parlare comune si tende spesso a fare di tutta l’erba un fascio, ma in verità a differenza dei primi questi ultimi sono persone costrette a scappare da guerre, violenze, persecuzioni e godono per questo di una tutela giuridica. Dalla condizione di profugo deriva quella di rifugiato, l’unica legalmente riconosciuta, che indica l’ottenimento di questo status da parte di un Paese terzo. I rifugiati sono per l’appunto persone costrette a scappare da guerre, violenze e persecuzioni. La Convenzione di Ginevra firmata nel 1951e ratificata da centoquarantacinque Stati membri dell’Onu definisce il rifugiato politico come una persona che, “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o alle sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o per tale timore non vuole domandare la protezione di detto Stato”. Ci sono altre categorie di profughi che hanno diritto alla protezione internazionale: i beneficiari di protezione umanitaria e sussidiaria, profughi in condizione vulnerabile sotto il profilo medico, psichico o sociale o perché, se fossero rimpatriati, potrebbero subire torture, violenze o condanne a morte. Il diritto di un rifugiato di essere protetto da un rimpatrio forzato o dal respingimento è stabilito dall’articolo 33 della Convenzione: “Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. I primi chiamati a rispondere al bisogno di questi nostri fratelli e ad essere per loro il volto della Misericordia del Padre per ciascun uomo siamo proprio noi cattolici. Li incontriamo ai semafori, agli angoli delle strade, all’ingresso dei negozi e delle chiese, nei nostri condomini e nelle scuole che frequentano i nostri figli. Richiamo forte alla Carità cristiana nei loro confronti è sicuramente il salmo 146, 9: “Il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l’orfano e la vedova”. Per non parlare del Vangelo secondo Matteo, 25, 34-46: “Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi»”. Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Anch'essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me». E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna»”. Si arriverà mai in tutti gli Stati in guerra alla deposizione delle armi? “La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurato e consolidato solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio. I progressi delle scienze e le invenzioni della tecnica attestano come negli esseri e nelle forze che compongono l’universo regni un ordine stupendo; e attestano pure la grandezza dell’uomo, che scopre tale ordine e crea gli strumenti idonei per impadronirsi di quelle forze e volgerle a suo servizio” (San Giovanni XXIII, Pacem in terris, 1, 1963). A chi, a quali mani certe e sicure affidare questa “preoccupante situazione del mondo”? “La preoccupante situazione del mondo e l’esperienza che il popolo compie della Misericordia divina, o Maria, ci spingono ad affidarci a Te e ad implorare la tua intercessione presso Gesù tuo Figlio e nostro Salvatore” (Movimento Fides Vita, Affidamento a Maria). Alla potente intercessione di Maria Santissima, regina della pace, rimettiamo questi popoli, nostri fratelli, vittime di guerre, carestie e persecuzioni, perché Lei interceda per ciascuno di loro e per l’intero pianeta l’agognato dono della Pace.