All’ultimo Festival di Cannes ha profondamente commosso il pubblico internazionale il film «Uomini di Dio» (titolo originale del film, “Des hommes et des dieux”) di Xavier Beauvois, fortemente voluto dal produttore cattolico Etienne Comar, che racconta la vita quotidiana di un gruppo di monaci trappisti nell’Algeria degli anni Novanta, insanguinata dalla guerra tra i terroristi del Fronte Islamico di Salvezza e il regime militare corrotto dell’epoca.
E non ha lasciato indifferente neppure la giuria presieduta da Tim Burton, che gli ha assegnato il prestigioso “Grand Prix du Jury” (Gran Premio della Giuria).
Il film rievoca la drammatica vicenda dei religiosi rapiti e assassinati dai terroristi del Gia a Tibhirine, sulle montagne dell’Atlante algerino a sud della capitale, nel marzo del 1996, ancora oggi al centro di una complessa indagine giudiziaria riaperta dopo il reportage del giornalista americano John Kiser; tutto questo in un clima di piena guerra tra fondamentalisti e governo, in un’escalation di atti di violenza e terrore che conduce fino alla minaccia di morte nei confronti degli stranieri per costringerli a lasciare il Paese, concretizzata nel ritrovamento di alcuni operai croati sgozzati.
Il regista si sofferma anche a raccontare i tre anni precedenti al martirio, quindi la vita quotidiana del monastero, fatta di lavoro e preghiera: alcuni coltivano l’orto, altri producono il miele e poi lo vendono al mercato; uno di loro, medico, cura tutti gli abitanti del paese, fino a fare quasi 150 visite al giorno. Tutti si accostano amorevolmente ai fratelli mussulmani condividendo con loro cibo, abiti, medicinali e parole di conforto in un clima di grande tensione e paura.
Prestano assistenza a chiunque si presenti al monastero, senza fare differenze di nazionalità, appartenenza politica o religione. Tutti li amano e li rispettano, perché tutti sanno di essere amati e rispettati da loro.
Non mancano, poi, i diversi momenti in cui i monaci si raccolgono in preghiera, cantando magnificamente ad una sola voce i salmi delle lodi mattutine e dei vespri della sera, oppure celebrando l’Eucarestia.
È stato definito un potente e rigoroso dramma politico che, narrando l’eccidio di un gruppo di monaci trappisti francesi nel nord Africa, rievoca il dialogo interreligioso, il colonialismo e le lotte di liberazione. Ma inevitabilmente riverbera anche le tensioni che agitano la Francia a causa delle polemiche sul burqa e le recenti espulsioni dei rom e continua ad essere un film attuale anche perché continua a far conoscere al mondo il martirio a cui sono chiamati molti cristiani, solo perché si professano tali e desiderano vivere come Gesù ha insegnato.
LA VITA DEI SETTE MONACI
I SETTE FRATELLI DELL'ATLAS
Nel 1993, quando in Algeria viene bloccato il processo elettorale e il Paese vive in un clima di violenza e morte, si intima agli stranieri di lasciare il Paese, sotto pena di venire uccisi. Come molti altri, i monaci di Tibhirine dovettero porsi la questione: bisogna restare o bisogna partire? Essi scelsero di restare al fianco di chi aveva bisogno di loro, convinti di non poter tradire la loro fede e la fiducia che avevano costruito nel rapporto con i vicini fratelli mussulmani. “Non temo la morte, sono un uomo libero” dice Lambert Wilson nei panni di padre Christian.
Perfettamente integrati in terra musulmana, i monaci guidati dal priore Christian de Chergé sono “fratelli” degli islamici di cui si prendono cura, ne diventano un punto di riferimento e con i quali recitano anche passi del Corano, testimoniando con la propria vita un amore per l’umanità che va oltre le barriere culturali e religiose.
Il 14 dicembre dello stesso anno, quando dodici Croati cristiani che lavoravano in un cantiere a Tamesguida, a quattro chilometri dal monastero, vennero sgozzati da parte dei rivoluzionari islamici, il problema si presentò in modo più immediato; e ancora di più dopo la visita di un commando armato, nella notte di Natale.
Passeranno lunghi mesi, tra la tentazione di scappare e tornare in Francia e la convinzione di assolvere un compito più grande, nella fede profonda in Cristo e nell’amicizia reciproca tra di loro, confortando un’ancor più impaurita popolazione misera e bisognosa del loro aiuto.
Insomma, dopo un lungo discernimento nella preghiera, essi scelsero di restare. Quando, nella notte dal 26 al 27 marzo 1996 un gruppo di uomini armati si presentarono al monastero e li condussero via, in direzione di Medea, agli occhi di coloro che li avranno visti attraversare il paese in mezzo alla neve, scortati da uomini armati, avevano l’aria di seguire dei terroristi. In realtà, seguivano Cristo.
Nessuno di loro desiderava il martirio. Essi amavano la vita e temevano la morte. Ma avevano coscientemente ed esplicitamente accettato la morte, se questa fosse stata la volontà di Dio.
La comunione dei monaci di Tibhirine con il popolo algerino continua oltre la loro morte. Le sette lunghe bare che i cadetti dell’esercito algerino portavano a Notre Dame d'Afrique il giorno dei funerali, in realtà non contenevano, ciascuna, che una testa. I loro corpi non sono mai stati ritrovati e restano sepolti in modo anonimo nella terra d’Algeria, in un luogo sconosciuto come migliaia di altre vittime altrettanto anonime della stessa violenza.
Il perdono dato in anticipo da padre Christian e da tutti i suoi fratelli a coloro che avrebbero potuto ucciderli, come pure il perdono dato dall’Ordine Cistercense e dalla Chiesa d’Algeria al momento dei funerali, non deve essere inteso come una accettazione tacita e tranquilla della violenza, di cui questi testimoni furono le vittime. Questo perdono non dispensa nessuno dal fare luce su tutte le circostanze di questa tragedia.
Queste sono le parole che formano il loro testamento spirituale, testamento che il film fa “leggere” nel finale, parole che non sfuggono il martirio ma nemmeno lo cercano (temendo che la colpa ricada indistintamente sull’amato popolo algerino). Soprattutto parole, commoventi, che esaltano la vita più che la morte, abbracciando anche l’assassino di cui non si conosce ancora il volto ma di cui si intuisce l’arrivo:
«Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di esser vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese. Che essi accettassero che il Padrone unico di ogni vita non può essere estraniato da questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di questa offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell'anonimato. La mia vita non ha un prezzo più alto di un'altra. Non vale di meno né di più. In ogni caso, non ha l'innocenza dell'infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, e anche di quello che mi può colpire alla cieca».
«(…) Mi piacerebbe, se venisse il momento, di avere quello sprazzo di lucidità che mi permetterebbe di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore, chi mi avesse ferito. Non posso auspicare una morte così. Mi sembra importante dichiararlo. Infatti non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che forse chiameranno la "grazia del martirio", doverla a un algerino qualsiasi, soprattutto se questi dice di agire nella fedeltà a ciò che crede essere l'islam. So bene il disprezzo del quale si è arrivati a bollare gli algerini globalmente presi. Conosco anche le caricature dell'islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi la coscienza in pace identificando questa religione con gli integrismi dei suoi estremisti. L'Algeria e l'islam, per me, sono un'altra cosa, sono un corpo ed un'anima. Ho proclamato abbastanza, credo, davanti a tutti, quel che ne ho ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre (la mia prima Chiesa), proprio in Algeria e, già allora, con tutto il rispetto per i credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno considerato con precipitazione un naif o un'idealista: "Ci dica adesso quel che pensa!". Ma queste persone devono sapere che la mia più lancinante curiosità verrà finalmente soddisfatta. Ecco che potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua Passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione, ristabilire la rassomiglianza, giocando con le differenze».
« (…) Per questa vita perduta, totalmente mia, totalmente loro, rendo grazie a Dio che sembra averla voluta interamente per quella gioia, nonostante tutto e contro tutto. In questo "grazie" in cui è detto tutto, ormai, della mia vita, comprendo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di questa terra, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, centuplo accordato secondo la promessa! E anche te, amico dell'ultimo minuto, che non sapevi quel che facevi. Sì, anche per te voglio prevedere questo "grazie" e questo "addio". E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piacerà a Dio, nostro Padre comune. Amen! Insciallah».
Perché sia di aiuto a comprendere meglio le condizioni di vita dei monaci trappisti del monastero di Notre Dame de l’Atlas, riportiamo qui di seguito due approfondimenti storici sull’Algeria degli anni novanta, sui suoi martiri cristiani e sul martirio dei sette monaci.
DEUS CARITAS EST : Il martirio dei sette monaci trappisti del monastero di Notre Dame de l’Atlas
La testimonianza dei Martiri di Tibhirine
Conferenza data da Armand Veilleux all'Università Regina Apostolorum, a Roma, il 5 dicembre 2000, durante un Simposio sui Martiri dell'Africa e dell'Asia
IL MARTIRE CIOÈ IL TESTIMONE
La critica cinematografica si è accostata a questa testimonianza di amore gratuito esaltando le scene comunitarie, le scelte prese in comunione, i lunghi silenzi... senza però sollevare la semplice ed elementare domanda su chi questi uomini guardavano e seguivano, fin nel giorno del martirio.Sin da subito si è detto che non c’è bisogno di essere credenti per apprezzare il film di Beauvois. Ma in quest'ottica cosa diventa il martirio? È inevitabile una sua interpretazione e denaturazione. Ne è esempio la critica negativa fatta alla traduzione in italiano del titolo. “Uomini di Dio” significherebbe infatti esattamente il contrario di “Des hommes et des dieux”, che andrebbe letteralmente tradotto con “Sugli uomini e sugli dei”. Non solo l’originale francese antepone gli uomini alle divinità, ma nella scelta del plurale vorrebbe accogliere l’intera umanità in un indistinto calderone di religioni e divinità. La traduzione “Uomini di Dio” ribadirebbe invece l’idea di un Dio unico a cui consegnarsi totalmente, eliminando la dialettica di una possibile alterità, considerata a tutela della pace e fratellanza tra i popoli (critiche tratte da Vivilcinema e Rivista del Cinematografo).
Senza voler entrare nella disquisizione letteraria e filosofica, occorre però sottolineare che il vero senso che i sette monaci hanno manifestato del loro vivere insieme ad una comunità islamica non era fare proseliti, oppure imporre una religione diversa, ma vivere loro per primi il rapporto con Gesù lì dove erano chiamati a stare, nel loro particolare servizio ai fratelli più poveri, in cui Gesù stesso si manifesta, si rende avvenimento presente oggi a noi. Impariamo infatti che “la missione sei proprio tu che vivi, ti rapporti, rispondi e agisci. Non è qualcosa che si aggiunge alla vita. Quello che abbiamo visto e vediamo, quello che abbiamo udito e udiamo, quello che abbiamo sperimentato e sperimentiamo, quello che abbiamo conosciuto e conosciamo, è tutto quello che genera e segna alla radice e come presenza il nostro io, ed è quello che si mostra in tutto quello che facciamo. Dal pulire i piatti alla politica, dal cambiare i pannolini al figlio fino al lavoro duro di ogni giorno. In quello che uno è chiamato a vivere e non dopo quello che è chiamato a vivere e a fare” (Nicolino Pompei - Mostraci il Padre e ci basta…Chi ha visto Me ha visto il Padre).
Nessuno di noi vedendo il film o imbattendoci con la loro storia ha incontrato super uomini, uomini che in qualche modo hanno superato le loro paure e remore in virtù di un valore da affermare, ma uomini uomini, anche a tratti dubbiosi ed impauriti, che però sono innamorati di Cristo; è la corrispondenza ad un Amore più grande che li chiamava a corrisponderlo lì in quella città, con quelle persone, in quei lavori umili, nel servizio nascosto ma indispensabile alla comunità. È questa l’essenza profonda del martirio di questi uomini.
Si legge nella valutazione pastorale dalla Commissione Nazionale Valutazione film della Conferenza Episcopale Italiana che "rinunciando a mostrare il momento dell'uccisione, il regista scavalca volutamente l'istintiva reazione della rabbia e dello sdegno per lanciare una precisa indicazione: non c'è martirio, la fede dei monaci è in grado di sconfiggere la morte, e il loro sacrificio é tanto più forte quanto più ha passato tutte le fasi del dubbio e della paura". Infatti “martirio” non è mero sinonimo di “morte ingiusta”: il greco “martyr” significa “testimone”. E questo termine porta in sé un esperienza, un accadimento che li ha investiti e che loro possono raccontare, testimoniare appunto: la vera vita, la vera morte e la vera resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, avvenuta 2000 anni fa e testimoniata a noi fino ad oggi attraverso gli uomini in cui Egli traspare. Non è di certo un convincimento a portarli al martirio ma un l'esperienza di un grande Amore che ha investito le loro vite, fino ad abbracciare quel dubbio e quella paura che Cristo stesso ha abbracciato sul legno della croce.
Non a caso in queste critiche istruite non si nomina mai Gesù, ed invece primeggiano parole come testimonianza di vita, fede dei monaci, sacrificio, che ci possono stare ma che mancano del soggetto amante: tale sacrificio per chi? Fede verso chi? Una vita donata da Chi?
Anche il valore di una pace tra i popoli e di una convivenza serena tra culture diverse ed a tratti opposte appare relegato alla bravura di pochi eletti se viene fatto fuori Cristo. Cristo è la nostra pace, è l’amore a Cristo presente nel volto di ogni fratello la radice di ogni pacifica convivenza e non uno sforzo, un valore o un ideale umano.
Se togli Gesù che resta? Un eroismo. Super uomini capaci di alte gesta fino alla morte, ma per affermare e testimoniare cosa? Chi? Magari rinunciando anche alla propria individualità a favore di quella della comunità, ma con quale guadagno?
Anche perché questi monaci erano stati da tempo avvisati del pericolo che correvano ed invitati dal governo ad abbandonare il monastero per rifugiarsi in luoghi più sicuri. Loro non erano eroi, coltivavano la terra, producevano il miele, curavano i più poveri del paese, la cui morte non sarebbe interessata a nessuno. Quindi in un’ottica di semplice eroismo sembrerebbe anche poco intelligente il gesto del martirio, considerato il bisogno che c’è in tanti luoghi della terra e la mancanza di operai nella “messe del Signore”.
Nessuno eroismo quindi ma solo un grande amore, che non ha schemi, valori o progetti, umanamente intesi.
Molte recensioni cinematografiche si fermano ad esaltare il buonismo interreligioso affermato dal regista, ma sembrano dimostrare di non aver mai sentito parlare di Gesù in croce, di Dio fatto uomo, che si lascia morire deriso e abbandonato dai suoi amici, innocente, come il più reietto tra gli uomini; non è l’uomo che si fa Dio, che si fa misura di Dio (come vuole far credere chi interpreta così l’aver anteposto nel titolo gli uomini a Dio), ma è Dio che abbraccia totalmente la condizione umana e che la redime in un’ottica di salvezza e di speranza.
Quindi anche la paura dell’uomo è abbracciata, perché è lo stesso Cristo che l’ha affrontata sul Golgota e nella resurrezione dona all’uomo la sua vera natura, la sua vera origine e il suo vero destino: partecipare per l’eternità di questo amore.
È solo nell’esperienza di un grande amore, dell’amore più grande, che non è ad un Dio generico, né tanto meno a degli Dei, ma a nostro Signore Gesù Cristo, nato, morto e risorto per la salvezza di tutti gli uomini, che possiamo comprendere pienamente il sacrificio di questi uomini.
La domanda che ci è scaturita dopo esserci imbattuti con la vita di questi uomini è questa: Chi c’è dietro un’umanità così? Quale Avvenimento genera un’umanità così fino a imporre anche l’apertura della nostra ragione e della nostra libertà a questo splendente umano?
È per questo che siamo usciti commossi dal cinema, non per aver incontrato bravi monaci, impegnati nella fratellanza universale e nel dialogo interreligioso, ma uomini innamorati di Cristo, che hanno riconosciuto nel volto del prossimo, qualsiasi prossimo, amico o nemico, proprio il loro Soggetto amato, vivendo fino in fondo, nella loro umanità, la promessa di centuplo quaggiù ed in eredità la vita eterna, proprio come ci ricordano le parole di Gesù riportate nel Vangelo di San Matteo: «“Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (Mt 25,31-46).