C’è un atteggiamento adeguato alla natura stessa dell’umano e del cuore che permette di sorprendere e sentire sempre - in tutta la sua chiarezza e vastità e sempre al fondo di noi stessi - il bisogno che siamo e questa esigenza elementare. È l’atteggiamento che Gesù stesso, ripetutamente, afferma come decisivo per il rapporto e il riconoscimento della Sua presenza e di tutto l’amore di Dio Padre che si rivela in Lui. Direi che è l’unico atteggiamento adeguato - razionalmente adeguato - per sentire e far emergere tutto il bisogno che siamo, quella assoluta fame e sete che siamo, e in cui solo è possibile quell’esperienza dell’essere colpiti e accalorati dal “fuoco ardente” della Sua presenza d’amore. È quello del povero di spirito. “Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli... beati quelli che hanno fame e sete di giustizia... Ti benedico, o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose a coloro che si fanno e si credono sapienti... e le hai rivelate ai semplici, ai piccoli”.
Desidero aiutarvi a comprenderlo di più attraverso un’immagine. Vi chiedo di fissare il vostro sguardo sull’immagine che abbiamo scelto per il nostro Convegno. Rappresenta la caduta da cavallo di san Paolo nella via di Damasco. Adesso però vi chiedo di lasciar perdere il significato reale di questa e di soffermarvi unicamente sull’immagine, di focalizzare unicamente quell’uomo in quella posizione. Quello non è più san Paolo ma un uomo qualsiasi. Il povero di spirito è uno che vive nel cuore quella medesima apertura che vediamo proprio rappresentata nell’atteggiamento di quell’uomo. Il povero di spirito è un uomo che non ha nulla se non quella domanda, quell’esigenza, quell’apertura, quell’attesa infinita del cuore da cui è originalmente e totalmente costituito. Don Luigi Giussani lo definisce splendidamente come un uomo “che non ha nulla eccetto che una cosa per cui e di cui è fatto, vale a dire un’aspirazione senza fine”. Pur dentro l’incombenza di quelle immagini con cui abbiamo voluto tentare di tradurre o con cui traduciamo il nostro bisogno, il nostro desiderio, le nostre esigenze, proviamo a ritrovarci ora con quell’apertura che abbiamo davanti ai nostri occhi, un’apertura evidentemente tutta spalancata ad attendere e a mendicare. Ma chi o che cosa? Quelle braccia spalancate - in quell’evidente atteggiamento di assoluta apertura - mi aiutano a mostrarvi l’atteggiamento del cuore del povero di spirito come quello di un uomo che non attende e non mendica nient’altro che tutto. Ma “tutto” inteso come il Tutto, la Totalità, l’Infinito. Quell’atteggiamento è un’apertura significativa di un’attesa infinita. Non dell’attesa di un cumulo di cose o di immagini senza fine. Ma proprio del Tutto, dell’Infinito, perché è di Lui che è fatto il mio cuore, perché così c’è stato dato ed è stato fatto, ed è per questo che noi viviamo. Il povero di spirito non ha nulla perché è ricchissimo solo di quella ineludibile esigenza infinita, che lo spalanca al rapporto con la realtà - dentro ogni momento del rapporto con la realtà - con un cuore tutto attendente e aperto all’Infinito, e che segna in ogni istante il grido del suo bisogno. Noi siamo questo bisogno di tutto: non inteso come bisogno di una innumerevole e interminabile molteplicità di cose, di fattori o rapporti... ma inteso come essere bisogno, come essere fame e sete del Totalmente altro, della Totalità, dell’Infinito che ci costituisce e a cui originalmente apparteniamo. Quest’immagine è proprio un aiuto per avere davanti ai nostri occhi - attraverso l’atteggiamento fisico di quell’uomo - l’atteggiamento e la disposizione del cuore che segna radicalmente il povero di spirito. Per imparare a domandare e a verificare in noi stessi questo atteggiamento del cuore, fatto di questa “aspirazione senza fine”, di quest’attesa senza limite, senza confine, incontentabile. Ma occorre chiarire bene che “senza fine”, “senza limite”, “senza confine”, “incontentabile” non si riferiscono al cumulo di cose che pretendiamo o di immagini in cui facciamo consistere la nostra soddisfazione. Si riferiscono all’apertura del cuore e alla sua vera esigenza, che non aspetta altro che l’Infinito e che aspetta tutto dall’Infinito, dal Totalmente Altro, da Dio. Chi è il povero di spirito? È un uomo che dovremmo guardare e imitare nel suo cuore segnato proprio da quell’atteggiamento di apertura, di distensione e di spalancamento sconfinato di fronte alla realtà, così come ci viene testimoniato dall’immagine. Un uomo totalmente spalancato che guarda tutto - dal cielo alla terra, dalle cose ai rapporti - con questa apertura e tensione del cuore, dello sguardo, della ragione... senza arrestarsi nell’attesa di qualcosa di particolare o su una immagine di qualcosa da attendere. Un’attesa sconfinata che non fa fuori le cose o i rapporti, ma che attende l’Infinito, perché - come ha riaffermato Benedetto XVI nel suo viaggio ad Assisi – “il cuore è solo esigenza di Infinito”, perché è l’Infinito che costituisce il suo vero bisogno dentro ad ogni bisogno particolare e perché è l’Infinito ciò in cui consistono le cose e i rapporti. Che attende l’Infinito per lasciare attaccare la vita all’Infinito, a Dio in cui consistono le cose e i rapporti, per l’esperienza di un possesso vero delle cose e dei rapporti, per l’esperienza di un vero guadagno alla vita e come piena corrispondenza al suo cuore. Solo quello del povero di spirito è l’atteggiamento adeguato del cuore perché la vita sia spalancata all’avvenimento della presenza di Gesù Cristo nella sua pretesa di essere l’Infinito fatto uomo. Perché si lasci incontrare, colpire, afferrare ed introdurre, dentro un cammino di continua e intensa familiarità, alla verità e alla certezza della Sua presenza.
Dobbiamo invocare lo Spirito Santo perché sostenga in noi questo atteggiamento. Lo sostenga innanzitutto per una liberazione da tutte quelle immagini che riempiono la nostra testa e con cui vogliamo tradurre il nostro bisogno e soddisfare il nostro desiderio. Per una liberazione da tutti quegli ingombri che abitano ed appesantiscono la nostra testa e la nostra esistenza, soffocando e paralizzando la vita. Solo con questo atteggiamento del cuore, nella certezza della Sua continua iniziativa di Grazia su ciascuno di noi, è possibile cominciare e ricominciare a sentire se stessi, veramente e liberamente. Cominciare a sentire se stessi proprio nell’esperienza che ritroviamo, nella preghiera dei Salmi, nell’immagine di quella cerva che anela ai corsi d’acqua; o in quella della terra arida e riarsa che, nella elementare consapevolezza della sua aridità, sente ancor di più emergere il suo bisogno e il desiderio di anelare a quell’acqua che sola la può soddisfare per poi irrigarla e fecondarla. È proprio una Grazia questo nostro Convegno, segno della Grazia della nostra Compagnia, in cui la Sua iniziativa su di noi non manca mai di mostrarsi e di mendicare il nostro umano al livello di quel terreno buono che solo - come ci insegna la parabola di Gesù - rende possibile ed efficace in noi l’iniziativa inarrestabile del Seminatore nell’accoglienza della Vita del Seme. Manchiamo noi, manchiamo noi nel nostro essere quello che siamo e in quell’atteggiamento richiamato da Gesù come quello più adeguato alla vita come beatitudine. Invochiamo lo Spirito Santo perché possiamo sostenerci in questo atteggiamento, possiamo sostenerci in questo amore alla verità della nostra vita che esige solo il cuore del povero di spirito. E ritrovarci nell’esperienza dell’avvenimento della presenza di Cristo al livello di quella presenza imponente e certa che abbiamo ritrovato nell’esperienza di san Paolo. Se non è per questo - come sempre ci ripetiamo - non c’è amicizia tra noi, quell’Amicizia secondo la chiamata e la definizione che Cristo stesso ci dà chiamandoci Amici. E non ci sarà mai l’esperienza di guadagno e di incremento della vita al livello di quella sublimità che sentiamo e riconosciamo - in tutto il suo splendore, in tutta la sua ampiezza e puntualità di avvenimento - incontrando la vita dei Santi. La vera perdita è continuare a ridurre la fede a qualcosa di meno della Sua presenza, della continua conoscenza di Lui, ritrovandosi ad attaccare la vita, magari dentro un cammino di devozione, a ciò che di fatto è spazzatura. A sottomettere la vita alla spazzatura della mentalità del mondo, e quindi a ciò che non la significherà mai veramente, non la incrementerà mai in niente e non la corrisponderà mai nel suo cuore. L’ambito proprio di verifica della fede in Gesù Cristo - quella testimoniata dalle parole di san Paolo - non sarà mai nel terreno di un discorso. Nel discorso possiamo anche essere impeccabili, dei maestri, ma la verifica della fede sarà sempre nel rapporto con la realtà, nel nostro umano in rapporto con la realtà, con quello che viviamo, vediamo, tocchiamo, scegliamo, ci rapportiamo... è lì che tutto diventa trasparente e si afferma nella sua verità. Le belle frasi e i bei slogan non reggono più, non reggono mai. Tutta la vita risulta trasparente solo in questo rapporto con la realtà ed è lì che verifichiamo a chi realmente siamo attaccati, chi è tutta la nostra fiducia, la nostra speranza, la nostra carità. A che livello di esperienza, di familiarità, di riconoscimento e quindi di giudizio viviamo la presenza di Cristo come Signore e Redentore. Senza questa esperienza perde l’umano e svuotiamo in noi la pretesa positiva, buona ed unica della proposta cristiana. Perché la verifica della fede è innanzitutto in quell’unica e impareggiabile capacità di servire la vita e alla vita, l’umano e all’umano. La verifica della fede è se serve a vivere meglio, veramente e pienamente; se risponde pienamente e continuamente all’umano che vive. E questo non lo stabilisce un discorso, ma l’esperienza reale di un umano che lo fa emergere come un avvenimento trabordante nel rapporto con la realtà.