QUELLO CHE ABBIAMO DI PIÙ CARO

Che non manchi di noi…

Dall'approfondimento “… perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”

“Tutti noi ci lamentiamo che ci manca la grazia; ma sarebbe forse più giusto che la grazia si lamenti che noi le manchiamo”. Attraverso queste pro-vocanti parole di san Bernardo, desidero innanzitutto riaffermare la grazia del gesto che stiamo iniziando, l’infinita gratuità dell’amore di Dio che ancora una volta, attraverso un gesto così, continua a prendere l’iniziativa verso ciascuno di noi, per la gioia e la salvezza della nostra vita.

Perché è pertinente questa pungente affermazione di san Bernardo proprio all’inizio del nostro cammino? Se siamo sinceri con noi stessi, dobbiamo riconoscere e ammettere che alcune volte in noi si insinua – anche inconsapevolmente, anche se non in maniera radicale e sistematica – un pensiero di obiezione a Dio rispetto alla sua presenza e al suo agire, che ci fa ritrovare dentro una intima lamentazione. Seppur non sempre in modo palesato ed espresso, è come se ci lamentassimo di non vedere la presenza e l’opera incessante e misericordiosa della grazia di Dio sulla nostra vita.

Le parole di san Bernardo, allora, ci aiutano a riconoscere come stanno veramente le cose. La grazia di Dio non manca mai di essere e di manifestarsi come grazia, non manca mai di prendere l’iniziativa e di operare incessantemente su di noi. La verità è che manchiamo noi. Manchiamo noi nella disposizione e nell’attesa umile e povera del nostro cuore, nell’apertura affamata e assetata del nostro terreno umano. Siamo così spesso ingombrati da pensieri e da immagini cristallizzate, così spesso presi dall’incombenza di una persistente e ostinata auto misurazione della vita, da poterci ritrovare anche nella morsa di una supponenza rispetto a come Dio dovrebbe agire o in una chiusura e indisponibilità rispetto alla sua presenza e al riconoscimento, all’accoglienza della sua iniziativa. Ciò che manca non è l’infinita grazia di Dio ma il nostro terreno finito, bisognoso, umile, povero, spalancato. Allora – come afferma san Bernardo – sarebbe più giusto che la grazia si lamenti della nostra mancanza, che le manchiamo noi.

Chiariamo bene: la grazia, l’infinito e gratuito amore di Dio non si addolora tanto di non ricevere nulla da noi. La grazia di Dio si strugge di non essere ricevuta, di non essere accolta, di non essere riconosciuta ed accolta come amore, come amore presente e incessante, sempre mobilitato e rivolto verso di noi, per la gioia e la salvezza della nostra vita. Il “lamento” addolorato dell’amore di Dio è quello di non potersi dare fino in fondo alla nostra vita perché gli manchiamo noi. Tutta la gioia dell’amore di Dio è solo nel ritrovarsi riconosciuto ed accolto in una continua apertura del nostro umano, dentro un umile, fiducioso e grato abbandono che lo lascia agire e penetrare profondamente,

fin dentro alla radice di noi stessi, per farci godere della sua viva presenza e fecondarci dei frutti della sua grazia.

A questo proposito, mi viene immediato il rimando alla parabola del seminatore raccontata da Gesù. Sappiamo come Gesù abbia trasmesso alcuni dei suoi insegnamenti fondamentali attraverso l’uso delle parabole, cioè di racconti immaginari ma attinenti alla realtà. Non sono delle favole ma dei racconti verosimili, narrazioni di fatti verosimili attinenti all’esperienza della realtà, anche naturale, attraverso cui Gesù vuole elementarmente spiegare, rendere facilmente e immediatamente comunicabili, comprensibili e convincenti i suoi insegnamenti fondamentali.

Gesù parla di un seminatore che prende gratuitamente l’iniziativa di spargere fiducioso la sua semente. Più volte ho richiamato che in questa gratuita e amorevole iniziativa c’è il punto centrale e fondamentale da cui dipende sempre tutto. L’iniziativa è sempre di Dio ed è una iniziativa sempre gratuita, incessante, piena di amore infinito e fiducioso. Si deve sempre partire da qui, dalla grazia che non manca mai, non viene mai meno e non si stanca mai di agire e di operare a vantaggio del nostro terreno umano.

Gesù però, nel racconto, si intrattiene a chiarire le condizioni del terreno perché la semente, sparsa gratuitamente e abbondantemente dal seminatore, possa portare il frutto sicuro, adeguato, abbondante. L’avvenimento centrale e decisivo è sempre il seminatore che prende l’iniziativa di seminare, di continuare a spargere il suo seme(anche questo gesto è certamente un’ulteriore iniziativa di semina della sua grazia), ma perché questa semina possa fiorire e fruttificare abbondantemente, secondo la portata del seminatore e della sua semina, dipende dalla disposizione del terreno, del nostro terreno umano, del nostro cuore; potremmo dire – seguendo la parabola – dalla “qualità” del terreno. Riprendendo il pensiero di san Bernardo, il punto, la necessità è che non manchiamo noi, che il seminatore – che semina incessantemente – non manchi di noi.

Senza entrare in maniera approfondita dentro la parabola, voglio farvi notare che Gesù non parla di una evidente chiusura del terreno, ma si sofferma semplicemente ad indicare le diverse condizioni di “qualità”, di accoglienza del terreno in cui cade la sua seminagione, indicandoci che è solo una quella veramente adeguata perché il seme possa essere accolto fino in fondo e portare il suo frutto sicuro. “… Dei grani cadono sul sentiero: vengono gli uccelli e li beccano. Altri cadono su terreno pietroso dove non c’è molta terra: germogliano subito privi di uno strato profondo di terra ma, sotto il sole, tutto brucia e non avendo radice, finisce per seccare. Altri grani ancora cadono sulle spine: queste crescono e li soffocano. Ma altri grani cadono sulla terra buona e fruttificano…”.

È come se Gesù ci volesse far cogliere che non è solamente una condizione di evidente chiusura quella che preclude la sua iniziativa, l’accoglienza e la fruttuosità del suo seme, ma anche una condizione di apparente apertura che però, di fatto, risulta e rimane solo apparente, superficiale, formale. Magari un’apertura ritrovata solo in passeggeri momenti emotivamente coinvolgenti, oppure segnata al fondo – anche nascostamente – dalla presenza, dalla seduzione di fattori mondani, oppure da spinose e soffocanti preoccupazioni, immagini, pensieri, o anche dalla supponenza di un pensiero “bello e fatto” o da una insita e deleteria abitudine: comunque tutte condizioni che, pur nell’apparenza di un’apertura, in realtà non offrono lo spazio adeguato al seme per penetrare l’intima realtà del terreno, radicarsi e fecondarlo del suo essere vitale e fruttuoso.

Insomma, per dirla chiaramente rispetto a noi: si può essere qui e in cammino non solo dentro una evidente chiusura, ma anche dentro un’apparente apertura che in realtà, al fondo, nasconde una profonda o anche parziale chiusura che, di fatto, non è una reale e adeguata apertura. Una condizione di apparente apertura che, anche senza una evidente chiusura, comunque non permette al seme di entrare a toccare, di penetrare la radice profonda di noi stessi e quindi di attecchire, crescere e fruttificare. In ogni caso, la verifica evidente e infallibile sarà sempre il frutto a noi impossibile, come Gesù stesso ci indica attraverso la realtà naturale. Un frutto che non si può inventare e che noi possiamo solo riconoscere e godere. Un frutto che non può essere artatamente imposto da noi, ma che può emergere solo dall’essere, dalla realtà vitale del seme accolto e lasciato radicare in noi, nel nostro terreno umano. Quindi, solo l’apertura di quel terreno buono, solo la condizione di un cuore semplice, umile, adeguatamente aperto secondo la sua natura, la sua esigenza originale; solo la condizione di un terreno umano aperto, accogliente, anelante di essere inseminato dalla grazia del seminatore, può portare frutto sicuro, fecondo e abbondante e, per questo, godibile da noi e da altri.

Insomma, usando delle parole geniali di Péguy ne Il portico del mistero della seconda virtù: “Dipende da noi… Che l’eterno non manchi del temporale (singolare capovolgimento), che lo spirituale non manchi del carnale… Che l’eternità non manchi di un tempo (del nostro tempo, del nostro terreno umano, temporale, bisognoso…). Che Dio non manchi della sua creazione… Che il più non manchi del meno, che l’infinitamente più non manchi dell’infinitamente meno, che l’infinitamente tutto non manchi dell’infinitamente nulla. Dipende da noi che l’infinito non manchi del finito. Il perfetto non manchi dell’imperfetto… Che il grande non manchi del piccolo, che il tutto non manchi di una parte, che l’infinitamente grande non manchi dell’infinitamente piccolo. Che l’eterno non manchi del perituro. Dipende da noi, dipende da noi che il creatore non manchi della sua creatura”.

È ciò che abbiamo chiesto allo Spirito Santo perché il nostro stare qui ci trovi presenti, vivi, spalancati al pari di quel terreno arido, arso, bisognoso che anela ai corsi d’acqua, che anela ad essere dissetato e irrigato per la sua sussistenza, vitalità e fecondità. Abbiamo chiesto aiuto allo Spirito Santo perché questa ulteriore iniziativa della grazia di Dio non manchi di noi, di me e di te: della nostra apertura, della nostra attenzione, del nostro desiderio, della nostra cedevolezza, della nostra arrendevolezza, della nostra piccolezza, della nostra attesa povera, umile e mendicante; non manchi della nostra rinnovata libertà in gioco, con tutta l’apertura e il giudizio della nostra ragione.

Nicolino Pompei

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