“Rinnega te stesso, lascia la tua vita per trovarla”: è l’invito fatto a ciascuno di noi a lasciarsi scrostare una vita partorita da ciò che non può né significarla né generarla, che è solo perdente. Che non può che partorire aria, vuoto, moltiplicazione di delusioni. Come il famoso tralcio che decide di darsi vita da sé, strappandosi dalla vite: non può che disseccare e prima o poi essere bruciato, ritrovarsi incenerito. Rinnega te stesso, lascia per trovare: è preferenza. È solo l’invito a preferire Chi solo può affermare la vita, corrispondere al cuore, fruttificare l’umano. Senza il quale anche il rapporto più affettuoso o naturale come quello verso una donna, verso il proprio figlio, è finito, è sotto la legge della mia misura finita e quindi perdente; che perde, fa perdere ciò che io non vorrei perdere e a cui vorrei solo dire “per sempre”.
Avete scelto quella immagine struggente del martirio di san Pietro. Il primo sentimento che può suscitare non è tanto di commozione o struggimento ma di paura e crudeltà. Eppure per me avete scelto bene. Quella immagine infatti non è segnata dalla crudeltà ma dall’amore, dall’amore di Pietro per il suo Amante, per l’Amore della sua vita, per il quale aveva lasciato tutto: è segnata dall’amore a Gesù. Se davanti allo sguardo di Pietro non riconosciamo il Soggetto amante ed amato, “l’Amore che omne cosa conclama” - come affermava Jacopone da Todi - se non intravediamo Colui al quale Pietro aveva detto: “Dove andare lontano da te, solo tu fai battere il cuore come nessuno, ci fai sentire la vita come nessuno, solo tu corrispondi al nostro cuore come nessuno è capace...”; se non riconosciamo Colui al quale, anni prima, in un modo struggente aveva risposto: “Tu lo sai che io ti amo”... quella immagine cade, crolla nel disumano, incute paura. Se viene meno il Soggetto amante e amato presente davanti allo sguardo di Pietro - invisibilmente, ma più presente di quegli schizzi di sangue e del suo dolore - viene giù tutto. Non solo in quella immagine: viene proprio giù tutta la Chiesa. Immaginatevi di veder crollare di colpo la santa Chiesa, con tutta quella bellezza di umanità, di carità, di opere, di architettura, di dipinti, musica e colori che la segnano. Se viene meno quell’Uomo viene giù tutto, viene meno tutto. Perché la natura e lo scopo della Chiesa, con tutto il suo prodigio e splendore di santità, di carità, di umanità consumata nell’amore, fin dentro alla sua architettura, arte e musica, è quella di affermare Cristo redentore dell’uomo, di segnare la sua Presenza contemporanea alla vicenda umana, di farLo incontrare e sentire parlare al cuore di ogni uomo. Così, anche nella condizione del lasciare, se viene meno quel “per me”, quel “a causa mia”, viene meno tutto. Allora anche per noi non è sufficiente che sia nominato alla fine di un nostro discorso, di una nostra azione o sottolineato da una grafica particolare come quella del manifesto. È necessario che sia sempre verificato come il rapporto decisivo e determinante la contemporaneità della vita, con e in tutto quello che essa è chiamata ad affrontare. Ed è per questo che la nostra adesione e i nostri rapporti non possono che essere incessantemente vissuti e verificati per il rapporto con Cristo, per l’esperienza che facciamo di Lui nel rapporto con la realtà, in cui solo Lo sperimentiamo come significato e consistenza della vita; per il richiamo e la mobilitazione ad essere una presenza missionaria dentro la vita della gente, dentro il bisogno dell’uomo, in tutto quello che facciamo e in cui ci ritroviamo ed operiamo. Non è di un discorso in più che abbiamo bisogno, ma che la nostra vita si ritrovi nella medesima dinamica e dinamismo di quei primi uomini e di quelle donne che l’hanno seguito. Di Pietro, di Giovanni, di Andrea… ma anche di Zaccheo, della samaritana o dell’adultera. È l’esperienza della Misericordia - incontrata nello sguardo eccezionale di Gesù - che ha spalancato le serrate porte del cuore e della casa di Zaccheo; che ha risollevato lo sguardo affossato e ottenebrato, riacceso e rivitalizzato il cuore ferito della samaritana e dell’adultera. Uomini e donne in cui la condizione del lasciare emerge dentro una impareggiabile attrattiva e come una traboccante e inarrestabile commozione d’amore a Gesù. In noi non ci sono una dinamica e un dinamismo diversi da ritrovare. Una dinamica e un dinamismo che innanzitutto devono avere nella preghiera la prima vitalità e il primo terreno fertile, fin dal primo mattino. Chi di noi, fin da quando apre gli occhi al mattino, si trova nella coscienza immediata del Mistero, nella consapevolezza della sua incessante iniziativa di misericordia sulla vita di ciascuno? Per riprendere coscienza occorre che la nostra libertà sia immediatamente mobilitata nella preghiera, che il desiderio e il cuore si chiariscano nella domanda, che la vita nella sua attesa e forza si lasci chiarire e innestare nella supplica. Che la vita fin dal mattino contrattacchi nella preghiera l’insidia della menzogna che ci vorrebbe sotto il dominio della volubilità degli stati d’animo, e cedevoli alla mentalità relativista e nichilista. Fin dal mattino - con tutta la precarietà che ci si può sentire particolarmente addosso - siamo invitati ad introdurci alla giornata e nella realtà con la forza di una preghiera semplice, come quella di un bambino alla mamma. A lasciarci semplicemente afferrare - come un bambino tra le braccia della mamma - fin nel primo passo mattutino, dalla sua Presenza sempre viva e vincente su ogni pressione umorale o stato d’animo, su ogni tendenza verso il basso e verso il niente.
Una dinamica e un dinamismo come quello di Giovanni, Andrea e Pietro, di Zaccheo, della samaritana... sono quelli che dobbiamo ritrovare sempre nella nostra sequela al cammino della Compagnia, che dobbiamo ritrovare nel nostro lavoro di approfondimento di parole, ragioni e giudizi; sono quelli che dobbiamo ritrovare come amicizia, come Amicizia che sostiene lo sguardo di ciascuno a Cristo, alla conversione come atteggiamento normale nel cammino della vita, al sacrificio del lasciare come condizione per la verità di ogni cosa, per l’Infinita Bellezza e Amore che “omne cosa conclama” dentro ogni momento.
È necessario allora porsi un’ultima domanda elementare che rimetta la vita di ciascuno di fronte ad una urgente decisione elementare: o la vita a livello dell’Infinito o a livello della veduta corta della nostra spanna; o a livello dell’Infinito o a livello della strettezza soffocante dei nostri schemi. A livello di Colui che vince su tutte le nostre complicazioni, ansie, paure e inquietudini e che solo corrisponde al desiderio del cuore o a livello del perimetro dei nostri vacui e miseri pensieri e progetti. A livello della nostra inadeguata e perdente misura o a livello della Totalmente Altra misura di Chi, non solo la vita ce la fa trovare e ritrovare continuamente e sempre, di Chi ce la ricrea e risolleva sempre dalle macerie della nostra miseria, ma di Chi non ce la fa perdere più, con tutto quello e in tutto quello in cui noi la perderemmo, e in cui perderemmo quelle cose a cui vorremmo indipendentemente essere attaccati. Cristo è la presenza in cui non solo non si perde la vita ma si centuplica, ritrovandola centuplicata attraverso e in tutto ciò che si vive.
“Chi avrà perduto e perde la sua vita per me…” è la condizione allora per non perdere Lui come Avvenimento che rende possibile la vita come pienezza, come gioia, come forza di affronto, come intelligenza, come fecondità, come libertà e amore. Per non perdere la Presenza in cui si realizza la promessa di felicità inscritta nel nostro cuore e che Cristo ha acquistata nella sua morte in croce per ogni uomo. Una prodigiosa testimonianza la ritroviamo nelle parole di san Paolo nella sua Lettera ai Filippesi, in cui ci documenta concretamente cosa è significato per lui: “… Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore; per Lui ho lasciato perdere tutte queste cose valutandole rifiuti, per guadagnare Cristo ed essere trovato in Lui… e per conoscere Lui…” (Fil 3, 7-8). San Paolo, con una elementarità disarmante, ci testimonia la sublimità della vita - dentro ogni momento e livello - nell’Avvenimento di Cristo, la sovreminenza dell’esperienza dell’umano e della realtà nell’esperienza di Gesù Cristo. Tutta la forza e il sacrificio del rinnegare se stessi, del lasciare e del perdere è tutta nell’attrattiva, nella sublimità, nella convenienza dell’aver trovato, riconosciuto, sperimentato il Signore della vita, l’Essere in cui consiste ogni creatura e cosa. “Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo, che un uomo, avendolo trovato, nasconde; e, per la gioia che ne ha, va, vende tutto ciò che ha e compera quel campo. Ancora, il regno dei cieli è simile ad un mercante che va in cerca di belle perle. E, trovata una perla di grande valore, va, vende tutto ciò che ha, e la compera” (Mt 13, 44-46). È l’aver trovato ciò che corrisponde, in ogni istante, all’infinita fame e sete del cuore che ragionevolmente e necessariamente muove a lasciare per seguire, a “vendere” per possedere il “campo” in cui v’è il tesoro; che necessariamente muove a lasciare per acquistare la perla preziosa come unica possibilità di valorizzazione e di possesso pieno di “ogni cosa”. E se l’hai trovata e non lasci, o sei un pazzo o non l’hai riconosciuta o non è la perla preziosa. La condizione è quindi stabilita dal rapporto con Colui in cui solo consiste il valore infinito e il nesso imprescindibile di ogni momento della vita nella sua molteplicità di rapporti, fattori e circostanze. Stare dalla parte di Cristo - il vero tesoro, la perla preziosa - non solo non ti fa perdere, non ti chiede di prescindere da ciò che normalmente attraversa la tua vita, ma te lo fa acquistare, possedere totalmente e veramente. Il lasciare non è buttare tutto al mare per Gesù; lasciare è preferire lo sguardo di Cristo su tuo figlio, tuo marito, tua moglie, sul tuo lavoro, sugli affetti, sul dolore e la gioia, la salute e la malattia. Ed è tale la ricchezza, la sublimità, l’esperienza di centuplicazione della vita - fin dentro al dolore o alla coscienza dei propri errori e tradimenti - che la vita non può che ritrovarsi e verificarsi - certo dentro un cammino paziente che nessuno deve quantificare pretenziosamente - nella testimonianza di una vita totalmente dedita al dono di sé per l’affermazione di Cristo, per la edificazione della Chiesa di Cristo, come assoluta Carità verso ogni uomo. Non sono due momenti: una vita consapevolmente riconosciuta e vissuta a livello dell’Infinito, attaccata continuamente a Cristo, non può che sovrabbondare nella Carità verso tutti, in una mobilitazione missionaria e operosa dentro il mondo. Se non è per questo il nostro aderire, se non è per questo il nostro seguire, il nostro dialogo, il rapporto tra di noi... non è per niente. Cosa è chiamata a portare la nostra Compagnia, cosa sono chiamati a portare i nostri rapporti, cosa sono chiamati a portare i nostri gesti e il nostro dialogo, se non la presenza di Cristo come Avvenimento decisivo di tutto, come la Speranza dentro ogni momento, come la chiarezza del Destino di cui Lui è rivelazione e attuazione definitiva per ogni uomo. Senza prenderne più seriamente coscienza, questo gesto del Convegno ci farà ritrovare solamente più elettrizzati, più scossi, più entusiasmati, magari un po’ più puntuali nel parlare, con qualche slogan aggiornato, ma nulla di più. Non ci renderà più segnati dall’esperienza di quella Bellezza e sublimità che la vita esige con tutta se stessa e che i Primi hanno sperimentato, ritrovandosi a non poter più fare a meno della sua Presenza. Smettiamola di ricercare tra noi una fasulla e impossibile sintonia o simpatia secondo la nostra immagine; cominciamo a cercarci per l’amore a Cristo. Impariamo a guardarci per la memoria che siamo chiamati ad essere l’uno all’altro; per il guadagno della vita che Cristo è; per il giudizio di Cristo e della Chiesa perché formi tutto il nostro dialogo di ripetizione e approfondimento; per la testimonianza di un umano segnato dall’abbandono, dal cedimento al suo Amore; per la testimonianza e la mobilitazione tra la gente così tragicamente ferita e ammalata dalle conseguenze di una vita strappata da Dio, così manipolata dalla menzogna, abbindolata nel desiderio e annichilita nella ragione.
La Compagnia vissuta senza che Chi l’ha voluta e fondata sia la tensione determinante la nostra adesione, la nostra sequela, il nostro lavoro, la nostra amicizia, comunque emerge con trasparenza: prima o dopo traspare dall’umano, dalle mosse dell’umano. Da un umano eternamente adolescente e puerile, insicuro, impaurito ed irresponsabile nel rapporto con la realtà; così rabbiosamente o romanticamente attaccato e segnato da un’immagine propria degli affetti come del lavoro, delle cose come del tempo. La radice a cui si attacca l’esistenza, la Vite a cui è attaccata la vita, prima o dopo traspare; e se non è Cristo niente regge, niente resiste e niente fruttifica; niente può mascherare a lungo la noia e la tristezza, l’insicurezza e l’instabilità, la non intelligenza, la non gioia, la non bellezza. E sarebbe una irrazionale ed ingiustificata trascuratezza verso la propria vita, continuare ad evitare o a sentire come esagerati richiami e correzioni che intervengono nel cammino della Compagnia.
Anche a noi, adesso, Gesù ripone la domanda stringente: Volete andarvene anche voi? Volete seguire i vostri tentativi autonomi di soddisfazione e di realizzazione della vita? Volete lasciarvi trascinare dalle vostre immagini, dalle vostre elucubrazioni mentali, dalle vostre irrazionali obiezioni? Volete rimanere attaccati e continuare a difendere quello che non può che darvi delusione e sconfitta? Solo che la ragione funzioni e il cuore sia lasciato emergere - anche per un attimo - per quello che veramente è, non possiamo che rispondere come Pietro: Signore dove andremo lontano da Te; non è possibile vivere senza sentirti più parlare… Solo Tu ci chiarisci la ragione e il cuore, solo in Te si trovano esaltati; solo in Te ci ritroviamo interamente e pienamente guardati, stimati e totalmente messi in gioco; solo in Te la vita ci risulta sempre dentro uno stupore ed una novità continua, dentro un amore a tutto e a tutti, dentro una intelligenza su tutto e su tutti; solo in Te ogni momento e fattore della realtà sono ritrovati come possibilità di bellezza, di bontà, di amore, di positività, altrimenti impossibile. Solo con Te si è guardati fino in fondo e si impara a guardare tutto e tutti fino in fondo e veramente, senza censurare nulla, senza scartare niente. Solo Tu ci chiarisci e ci porti la vita più grande, la vita nel centuplo, come anticipo della vita che non finisce, della Vita eterna. Signore, solo Tu corrispondi pienamente. Allora chi vuol venire dietro a me rinneghi se stesso e mi segua; lasci il suo attaccamento perdente e si attacchi a me, e mi segua per trovare la vita che non finisce. Chi vuole salvarla da sé la perde, ma chi la perde per me la ritrova e la ritroverà sempre, momento per momento; la salverà pienamente, momento per momento e per la vita eterna.