QUELLO CHE ABBIAMO DI PIÙ CARO

L'essenziale è visibile agli occhi

Dall'approfondimento “La Felicità in Persona”

Permettetemi, in questo momento, di leggere alcuni versi di Leopardi, tratti dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Quante volte mi sono ritrovato a pensare ai pastori di Betlemme, ad immedesimarmi con quei pastori, nella notte prima dell’annuncio dell’Angelo, prima di correre ad andare a vedere quel Bambino, il volto di quel Bambino, il volto della Felicità fatta carne… Attraverso questo canto di Leopardi siamo facilitati a vivere questa immedesimazione. Alcuni versi di questo canto ci permettono di risentire, non solo la condizione di quei pastori – uomini esclusi, ultimi, messi ai margini di tutto, considerati meno di niente – ma anche la condizione di ogni uomo, di ciascuno di noi, prima e senza questo avvenimento inaudito e sorprendente, prima e senza la presenza del volto della felicità, prima e senza la presenza di Gesù, il volto della felicità. Possiamo senz’altro dire che quello che Leopardi dice del pastore d’Asia vale per ciascun uomo, vale per ciascuno di noi senza l’incontro con Gesù.

“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, /silenziosa luna?”. Così mi sono immaginato la notte di quei pastori di Betlemme, segnati da questa domanda rivolta alla luna. “Sorgi la sera, e vai, / contemplando i deserti; indi ti posi. (…) Somiglia alla tua vita/ la vita del pastore. / Sorge in sul primo albore (sorge al mattino prestissimo la vita del pastore), / move la greggia oltre pel campo, e vede / greggi, fontane ed erbe (vede e fa sempre le stesse cose durante la giornata); poi stanco si riposa in su la sera: / altro mai non ispera”. Questa è la condizione dell’uomo, un’espressione drammaticissima della condizione dell’uomo: vede e fa sempre le stesse cose e non domanda più altro, non spera che possa succedere qualcos’altro, non spera che capiti qualcosa, che durante la giornata capiti qualcosa. È sempre così la giornata: dal mattino alla stanchezza della sera. Questa è la medesima condizione di quei pastori fino a quella notte di Natale, prima dell’incontro con quel Bambino. Ed è anche la condizione di ogni uomo che vive senza l’incontro con Cristo. (Attenti bene, questo momento lo riprenderò più volte durante l’incontro: torna ad essere questa la condizione umana anche per chi lo ha incontrato – come ciascuno di noi – se questo incontro non è sempre presente, non ritorna ad essere sempre presente, se non si rinnova sempre come esperienza attuale).

Comunque, ho immaginato così la condizione di quei pastori, prima di correre a vedere quel Bambino: “Dimmi, o luna: a che vale / al pastore la sua vita, / la vostra vita a voi? dimmi: ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortale?”.

Leopardi conclude questa poesia con quella terribile affermazione che, pur non vera, è sempre la tentazione di ogni uomo: “È funesto a chi nasce il dì natale”. È veramente terribile quest’affermazione ma, in fondo, è la realtà a cui l’uomo giunge inesorabilmente senza l’avvenimento di quel Natale, del Natale di Gesù di duemila anni fa. In quella notte accade l’annuncio inaudito e imprevisto che sconvolge, non solo la vita di quei poveri pastori, ma quella di ogni uomo, rendendo non più funesto ma un continuo miracolo, una misericordia, una grazia il “dì natale”, qualsiasi nascita, qualsiasi bambino che nasce alla vita.

Quella notte, quella famosa notte di duemila anni fa, annunciava la grande gioia del cuore. Quella gioia, quella felicità, quella promessa attesa dal cuore, quella promessa che è il cuore – sentita senza speranza di risposta nel cuore di quei pastori, come nel cuore di ogni uomo – in quella notte viene annunciata presente, viva, reale: viene annunciata nella carne di un bambino che quei pastori sono chiamati ad andare a vedere e a toccare. E in forza di quella speranza, di quella gioia – presentite e ridestate sorprendentemente nel loro cuore per quel misterioso annuncio – si sono messi a correre per andare a vedere il volto della felicità: sono andati a vedere quel Bambino.

Quel Bambino rende possibile di tornare a domandare la felicità. Quel Bambino ha reso possibile e rende possibile al cuore di ogni uomo di tornare a diventare cuore, di tornare ad emergere come promessa, come preghiera di felicità, come domanda di quel Tu da cui e per cui è fatto, di tornare ad essere così come il Creatore lo ha creato: perché Colui per cui il cuore c’è è Uno, Uno davanti, presente, che si può toccare, si può vedere, si può incontrare, si può seguire e si può sempre domandare.

Ascoltiamo un tratto di un’omelia del Natale di sant’Agostino: “Per te, dico, Dio si è fatto uomo”. Sì, proprio per me e per te! “Tu saresti morto per sempre se non fosse nato nel tempo”, se il Verbo Eterno in un preciso momento di tempo non fosse nato nel tempo. “Mai saresti stato liberato dalla carne del peccato se Egli non avesse assunto una carne simile a quella del peccato. Saresti stato posseduto da una perenne miseria se non fosse accaduta una tale misericordia. Non saresti ritornato a vivere, non avresti riavuto la vita se Egli non avesse abbracciato la tua morte… saresti venuto meno, se Lui non ti fosse venuto in aiuto, se non ti avesse soccorso. Tu saresti perito se non fosse venuto”.

In queste parole, sant’Agostino ci fa sentire in maniera evidente come di mezzo ci sia una questione di vita o di morte: senza la sua venuta in mezzo a noi, senza la sua presenza, senza il suo essersi fatto carne, non solo la felicità sarebbe impossibile al cuore, ma la vita sarebbe solo un lento e inesorabile trascorrere e correre verso la morte; ogni uomo sarebbe solo segnato e definito dalla sua miseria e debolezza mortale e avrebbe come tragico orizzonte solamente la morte.

Ma in quella famosa notte di duemila anni fa, Colui che con il “Credo” affermiamo “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo di Lui tutte le cose sono state create…” accade nella carne di quel bambino partorito da Maria. “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nella vergine Maria”. È diventato Uno presente nella storia, una Carne presente dentro la storia degli uomini.

Dice ancora sant’Agostino in un suo commento alla prima Lettera di san Giovanni: “Chi può toccare con le mani il Verbo, se non perché il Verbo si è fatto carne ed abita tra noi? Questo Verbo, che si è fatto carne perché si potesse toccare con le mani, ha iniziato ad essere carne nel ventre della vergine Maria”. È stupefacente quello che dice Agostino, perché con una semplicità disarmante chiarisce il mistero dell’incarnazione; chiarisce elementarmente, senza possibilità di fraintendimenti e riduzioni, l’essenza del cristianesimo e “quello” che è accaduto. Non ci mette di fronte aduna complessa questione teologica o ad una visione mistica, ma ad una realtà, un fatto che si può toccare con le mani, che gli occhi possono vedere. È proprio quello che riceviamo, come testimonianza, direttamente nella prima Lettera di san Giovanni: “Quello che era fin da principio, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo visto con i nostri occhi e le nostre mani hanno toccato del Verbo della vita…”. È tutto qui il cristianesimo, è tutta qui la felicità, è tutta qui l’essenza e l’esperienza del nostro cammino di fede, della nostra amicizia e della nostra testimonianza nel mondo.

Perché Dio si è fatto carne, perché ha indossato un corpo da schiavo assumendo la nostra carne? Perché potesse essere incontrato, visto, toccato, sperimentato da me e da te; perché potesse essere incontrato dalla carne distrutta dal peccato di quella donna di nome Maria Maddalena, perché la sua presenza di carne potesse incontrare il cuore ferito e disperato di quella donna e lei potesse baciare i suoi piedi, bagnarli con le sue lacrime e asciugarli con i suoi capelli; perché potesse incontrare, commuovere, attrarre, cambiare il cuore impenetrabile, impermeabile di quell’uomo cinico di nome Zaccheo; perché il suo sguardo pieno di misericordia potesse investire e abbracciare quella donna messa a morte dal peccato e dalla legge, risollevandola alla vita e alla sua dignità originale; perché Giovanni – l’Evangelista amato – potesse reclinare la sua faccia, il suo volto sul suo petto e lì trovare tutta la sua piena e permanente felicità.

Agostino, nella medesima meditazione, fa un passaggio che ritengo necessario far emergere: non solo – come vi dicevo qualche istante fa – per riaffermare la verità, l’originalità inaudita del mistero dell’incarnazione rispetto ad una grave riduzione spiritualistica con cui – anche in ambito ecclesiale -si concepisce e si comunica Gesù, l’avvenimento di Gesù; ma anche rispetto ad una sempre più evidente e dominante riduzione sentimentale/intimistica con cui si concepisce e si parla normalmente del cuore, dell’interiorità dell’uomo. “(…) Per questo la vita stessa, la felicità stessa, si è manifestata nella carne (si è resa visibile agli occhi degli uomini),perché quello che solo il cuore può vedere fosse visto anche dagli occhi e così si sanasse il cuore”. Questo cuore, seppur costitutivamente esigenza di felicità, promessa e attesa di felicità – come vi dicevo all’inizio – è ferito dal peccato e quindi è un cuore annebbiato, che facilmente si corrompe, decade nella realtà di proiezioni nostre, di proiezioni umane; si corrompe e decade nella realtà di immagini, di tentativi o di presunzioni nostre, con cui cerchiamo di pacificarlo nella sua inquietudine, di soddisfarlo nella sua fame di felicità. È qui che il cristianesimo si pone in tutta la sua novità, in tutta la sua “pretesa” di assoluta e sconvolgente novità: “Allora il Verbo si è fatto carne, e questa (carne) l’abbiamo potuta vedere, così che fosse sanato in noi anche il cuore, con il quale possiamo vedere il Verbo”.

È proprio l’esperienza di quei primi uomini e donne incontrati, investiti, attratti, sconvolti dalla presenza di carne di Gesù, dallo sguardo di Gesù, dalla carezza di Gesù il Nazareno; ma è anche la nostra esperienza. “Ciò” che è decisivo è il Verbo, “ciò” che salva è il Verbo di Dio, l’Essere di Dio, ma “ciò” che ha commosso e attratto il cuore di Zaccheo, di Maria Maddalena, della Samaritana, dell’Adultera… – così come il cuore di ciascuno di noi -è stata quella carne, quella umanità, quello sguardo, quella presenza: la presenza del Verbo fatto carne perché ogni uomo potesse incontrarlo, vederlo, toccarlo, baciarlo, sentirsi chiamato da Lui per nome, riconoscerlo e attaccargli tutta la vita.

E tutto questo è partito da lì: dalla inaudita iniziativa dell’amore di Dio che “fissando” da sempre il suo “sguardo” su quella donna di nome Maria- “termine fisso d’etterno consiglio” – in un momento di tempo della storia, le chiede il permesso di accadere nella storia come uomo, come un figlio di carne attraverso la sua carne. Maria e Giuseppe sono i primi che hanno visto Dio con i loro occhi nella presenza di quel bambino, che si lascia partorire nella carne di Maria e che si consegna per trent’anni alla vita della santa Famiglia di Nazareth. Così l’Eterno ha iniziato ad esistere nel tempo, così è cresciuto nel tempo: è cresciuto come ogni bambino, vivendo la vita di un qualsiasi bambino all’interno della sua famiglia, per trent’anni; e dopo quei trent’anni, ha iniziato ad incontrare quei primi uomini che saranno la sua compagnia permanente nel tempo e nella storia, e dalla quale farà scaturire la sua Chiesa nel tempo e nella storia.

La Felicità fatta carne, la Vita fatta carne si fa incontrare, vedere, conoscere da quei primi uomini che l’hanno incontrata, per la prima volta, sulle rive del Giordano quando, dopo l’indicazione di san Giovanni Battista -“ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo”- si sono messi alle sue calcagna, mossi da una misteriosa e irrefrenabile attrattiva del cuore; attratti da un imprevisto, crescente, incontenibile presentimento del cuore; accesi da un sorprendente ardore del cuore che gli faceva sentire di essere davanti a “quello” che il loro cuore cercava profondamente. Quei due primi uomini- Giovanni e Andrea – alla domanda di Gesù – “che cercate?” -non si soffermano nemmeno un istante a chiarire il senso della loro ricerca, della loro attesa, ma si ritrovano subito a domandare l’unica cosa che si può domandare quando il cuore pre-sente di essere di fronte alla felicità: “Maestro dove abiti?” –“Dove rimani? Chi sei?”. “E Gesù disse loro: «Venite e vedete»” -“Venite a vedere voi stessi se è vero quello che il vostro cuore ha pre-sentito”.

E da questa storia dentro la storia (inizialmente privata, anche se fatta di tanti episodi pubblici come quello dei pastori, come quello dei re Magi… e che, dopo trent’anni, diventa una storia pubblica per tre anni…), da questa storia dentro la storia la sua presenza ha attraversato la storia; ha incontrato e segnato la vita di uomini, di donne, di popoli di ogni tempo, di ogni latitudine e longitudine, di ogni genere e classe sociale, fino a raggiungere anche noi, ciascuno di noi, fino a raggiungerci anche adesso.

“Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo…”. In un momento preciso della storia, nella e attraverso la carne particolare di una donna, l’Amore di Dio – che ha tessuto il nostro cuore per Lui – si rivela come uomo nella storia, come presenza reale che si può incontrare, vedere, toccare, seguire; alla quale si può attaccare il cuore e quindi tutta la vita.

Nicolino Pompei

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