Ci troviamo sull’altra riva del mare di Galilea, detto anche di Tiberiade. Ci viene riferito dal Vangelo che lo seguiva molta folla, anche per i molti segni che egli operava soprattutto sugli infermi. Ad un certo punto Gesù, fermandosi e alzando lo sguardo, si accorge di questa moltitudine di persone che lo segue e che gli va incontro. “Ed ebbe compassione di loro”. Quante volte ci siamo soffermati su questa compassione di Gesù e quante volte dovremmo farlo dentro una giornata… Questa compassione di Gesù è proprio la rivelazione nel suo umano dell’amore di Dio verso ogni creatura, verso ciascuno di noi. Un amore ininterrottamente commosso verso di me e di te. È la misericordia di Dio per ogni uomo. Anche qui si mostra pienamente. Questa gente lo segue da più ore, se non da giorni, ed è senza mangiare e molto affaticata.
Dobbiamo considerare che questo momento è anticipato, nel Vangelo di Giovanni, da un drammatico scontro dei farisei con Gesù. Un dialogo durissimo che lo fa emergere con affermazioni sempre più misteriose per chi lo ascolta. Ma alle quali non vuole assolutamente rinunciare. Sono soprattutto le parole che usa per chiarire e affermare la verità della sua presenza e del suo agire. Per Gesù è proprio necessario rivelare la verità di sé, perché nessuno si fermi all’apparenza, all’apparenza sorprendente ed eccezionale della sua presenza. Ma lo riconosca come rivelazione del Padre e nell’unità con il Padre. È questo l’avvenimento necessario per cui si è fatto uomo, ed è questo l’avvenimento da rivelare e partecipare ad ogni uomo per la sua salvezza. È proprio il Padre e il rapporto di unità con il Padre che non smette mai di affermare nell’affermazione di sé.
Poco prima del gesto della moltiplicazione dei pani, in uno dei tanti pretestuosi attacchi dei farisei e di alcuni Giudei a Lui (in questo caso sulla non osservanza del sabato dopo aver guarito un uomo), il Vangelo di Giovanni ci riporta: “... Gesù disse loro: il Padre mio continua ad agire e io pure agisco. In questo i Giudei trovarono una ragione ancor più forte per ucciderlo, perché non solo violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”. Gesù riprese la parola e senza tentennamenti disse: “In verità, in verità vi dico, il Figlio non può fare nulla da sé, ma solo ciò che vede fare dal Padre: ciò che fa il Padre lo fa anche il Figlio... Come il Padre risuscita i morti e dà loro la vita, così anche il Figlio vivifica chi vuole... Chi non onora il Figlio non onora il Padre che l’ha mandato. In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna... Il Padre, che ha la vita in se stesso, ha dato anche al Figlio di avere in sé la vita... Io non posso fare nulla da me stesso: come ascolto, giudico; e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà ma la volontà di Colui che mi ha mandato... Queste opere che io compio testimoniano che il Padre mi ha mandato. Il Padre che mi ha mandato, ecco il mio testimone... Ma come potete credere voi che mendicate gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?”.
Dobbiamo aver presente questo contesto drammatico e la rivelazione di queste parole di Gesù che anticipano l’avvenimento della moltiplicazione dei pani. Ci siamo soffermati sulla compassione di Gesù verso quella folla che lo seguiva da ore, senza sosta. Per questo chiama Filippo e gli fa una richiesta ben precisa: “Dove possiamo comperare del pane per dar loro da mangiare?”. Filippo, a questa domanda, rimane esterrefatto.
Ma comunque risponde. E, con il realismo che lo caratterizzava, risponde che 200 denari di pane non sarebbero bastati neppure per darne un pezzetto a ciascuno. A questo punto interviene Andrea, fratello di Simon Pietro, che fa presente che c’è un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, che evidentemente non sono sufficienti per sfamare tutta quella gente. Ma Gesù indica ai Suoi di far sedere quella folla, che il Vangelo ci dice essere di quasi 5000 uomini e donne. E poi prendendo i pani, dopo aver pregato, chiede di distribuirli insieme a lui a quella gente. “Come distribuiamoli?”, si domandano attoniti i discepoli guardandosi tra di loro. “Ho detto: distribuiteli insieme a me”, risponde con decisione Gesù. E accade il miracolo. C’è poco da discutere o da interpretare. C’è la realtà evidentemente straordinaria di un fatto che accade davanti ai loro occhi, che ancora una volta vince tutta quella umanissima perplessità, che non facciamo fatica ad immaginare in loro. C’è l’evidenza e la forza del fatto: “Tutti ne mangiarono a sazietà, e dopo aver mangiato ci furono avanzi da riempire ben 12 canestri”. In situazioni come questa, si rinnovava quella domanda che continuamente si imponeva nel cuore di chi lo seguiva o assisteva ad avvenimenti straordinari come questi: “Ma chi è costui?”. Qual è la vera natura di quest’uomo? La fede è proprio la risposta a questa domanda. Nessuno poteva disconoscere di stare di fronte ad una presenza straordinaria, impossibile da definire che però - lo vediamo e lo vedremo anche con i discepoli, come l’abbiamo visto e lo vediamo tante volte in noi - continuano a confinare e a ridurre alle loro immagini e figure, come per esempio quella di un profeta. E Gesù stesso non mancherà di farlo emergere qualche ora dopo in maniera chiara. Il giorno seguente, infatti, quando quella folla sfamata - rimasta sull’altra riva, dove era accaduto il miracolo, per riposarsi e dormire - svegliandosi si accorge che Gesù era andato via e non ci sono nemmeno i suoi discepoli, sale sulle barche e si dirige alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. È interessante notare che la reazione di panico della folla è ulteriormente alimentata dal fatto di non vedere più nemmeno i suoi discepoli, perché per la gente ormai è divenuto normale rivolgersi a quegli uomini più congiunti a Gesù per arrivare a Gesù. È proprio l’anticipo della figura degli apostoli e dei pastori della Chiesa, il cui scopo fondamentale è quello di assicurare e garantire la fede, l’incontro e il riconoscimento vero, pieno e certo di Gesù Cristo. Gesù si fa ritrovare. E una volta vicino a Lui, qualcuno dalla folla osa domandargli: “Rabbì, quando sei venuto qua?”. E Gesù accoglie quell’ansimante domanda e risponde: “In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato i pani e vi siete saziati”. Non è né una polemica né un rimprovero quello di Gesù. È semplicemente la verità. Ed è il modo attraverso cui vuole costringerli a pensare alla ragione del loro andargli dietro, perché possano passare dal segno alla realtà, all’avvenimento del segno. Perché non si arrestino all’apparenza straordinaria del segno ma arrivino fino in fondo, arrivino a riconoscere la sua vera presenza. Quello è decisivo. È decisivo e necessario proprio per il bisogno di ogni uomo. Gesù non vuole rinnegare nulla di quel segno miracoloso con cui li ha materialmente sfamati. È realmente coinvolto nella storia degli uomini. Anche dentro questi bisogni materiali. Ma non è per questo che Lui è venuto e si coinvolge nella storia. Non è venuto per sfamare e risolvere i bisogni materiali degli uomini. Ma per rivelare e rispondere pienamente al fondamentale bisogno dell’uomo. Il bisogno fondamentale dell’uomo che non scarta ed è sempre coinvolto e presente in ogni bisogno particolare, che ne è in qualche modo sempre richiamo. Proprio per questo è necessario che arrivi fino in fondo, che arrivi a svelare qual è la realtà e la verità di quel segno. E infatti dice loro: “Procuratevi non il cibo che perisce, ma il cibo che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà.
Perché su di lui Dio Padre ha messo il suo sigillo”. Quel pane che io vi ho dato è semplicemente la risposta ad un bisogno immediato e fisico. Ma non è quello che può soddisfare la vita intera, l’attesa imprescindibile della vita come senso, forza e speranza nel suo cammino verso il Destino. Quel pane che io vi ho dato è il segno del vero Pane necessario a sfamare continuamente la vita nel suo assoluto e fondamentale bisogno. È quello che non deve mai mancare. Allora uno dalla folla gli grida: “Signore, dacci sempre di questo pane”. A questo punto Gesù compie quell’ultimo passo necessario perché si riveli la verità di quel gesto affermando la verità della sua persona. Necessario perché la vita sia investita e si affermi nel riconoscimento di Lui come la risposta piena al vero bisogno e al desiderio di compimento e di felicità dell’uomo. Non è un di più opzionale arrivare alla verità che vive in ogni gesto e segno miracoloso che il Signore compie. È proprio la necessità per il cuore dell’uomo e per la sua vera soddisfazione. Senza la quale la vita non c’è, è peggio che se non ci fosse, non ha la possibilità di essere la vita.
Senza Colui che ne è il senso, la verità, la pienezza e la salvezza non ci può essere affermazione della vita, se non nel niente e nella morte. E Gesù risponde: “Sono io il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame. Chi crede in me non avrà più sete... Questa è l’opera di Dio: credere in Colui che egli ha mandato... Io sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà ma la volontà di Colui che mi ha mandato... Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in Lui abbia la vita eterna, e io lo risusciti nell’ultimo giorno”. Già a queste parole comincia a crescere tra la folla una certa perplessità e a salire una forte mormorazione. D’altra parte sono abituati a sentirlo parlare in maniera strana e misteriosa. E quindi ancora reggono il colpo di quelle parole. Ma l’apice si tocca quando Gesù, riprendendo la parola, dice: “Non mormorate fra di voi. Nessuno viene a me se il Padre che mi ha mandato non lo attira... Nessuno ha visto il Padre tranne Colui che viene da Dio... Sono io il pane della vita, il pane vivo disceso dal cielo. Chi mangerà di questo pane vivrà in eterno. Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna. Perché la mia carne è il vero cibo e il mio sangue è la vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”. E dalla mormorazione si passa allo sconcerto, all’obiezione e alla sospensione del rapporto con la realtà. Si comincia a rinnegare la realtà stessa. È un momento drammatico ma nello stesso tempo un commovente spettacolo pensare alla libertà di Gesù, che non ha nessun cedimento rispetto alle sue parole. Nessun cedimento, perché Lui sa che c’è di mezzo la felicità di ogni uomo ed è per questa che Lui è venuto ed è venuto a morire. Non ha paura di rimanere solo - come d’altra parte sarà - solo per amore nostro e per la nostra salvezza. “Ma cosa sta dicendo? Come può darci la sua carne da mangiare?”. E invece di andare fino in fondo a questa sconvolgente provocazione, come sarebbe rettamente razionale fare, visti i fatti straordinari di cui loro sono stati testimoni oculari, si preferisce mantenere e costringere la vita e la realtà dentro l’immagine della propria misura delle cose. Essi non riescono ad aprirsi alla possibilità di un Totalmente Altro che vive in Gesù e che Gesù rivela. Non riescono ad aprirsi alla possibilità della presenza divina nella presenza umana di Gesù. Il suo essere uomo, il suo aspetto terreno, fenomenico, è incompatibile con il loro modo di aver già concepito Dio e la sua manifestazione nella storia. Risultava vivissima l’attesa del Messia nel popolo d’Israele, ma evidentemente era un’attesa già tutta definita, contrassegnata da una stabilita e preconcetta definizione. Che alla fine li porta a cercare e a confermare se stessi come misura. Ma per fare questo occorre rinnegare la realtà e il fatto. Sì, tutti quei fatti che erano accaduti davanti al loro occhi. Uno di questi era stato proprio la moltiplicazione dei pani. Un momento prima c’era stata la guarigione di quell’uomo cieco e poi di quell’altro paralitico. Come aveva potuto fare questi miracoli quell’uomo? Come aveva potuto moltiplicare quel po’ di pane e di pesce? Evidentemente si trovavano davanti ad una presenza che li superava, un totalmente altro che non si era in grado di spiegare ma che non si poteva rinnegare. Che non si era in grado di spiegare se non con la parola Mistero. Tanto che la domanda continua e inevitabile davanti alla sua presenza è sempre stata: chi è costui? A questa domanda può rispondere solo Colui che la fa scaturire, che la fa emergere spontaneamente dal cuore di ciascuno. E a cui la ragione, per non rinnegarsi, non può che aprirsi totalmente e con fiducia. Parliamo di un cuore e di una ragione riconosciuti nella coerenza della loro natura, non offesi e ingabbiati da pregiudizi e preconcetti ingiustificati e innaturali. Invece, quella folla fa quello che ritroviamo sistematicamente nella mentalità del mondo: costringere la vita nel carcere e nelle catene di schemi e di immagini della propria misurazione della realtà. Di fatto rinnegando la realtà, la provocazione di segno del Mistero che ci viene dall’esperienza leale con la realtà tutta, a vantaggio di meschine, illusorie ed evanescenti immagini della nostra inidonea misurazione della realtà. Cominciano infatti a gridare: è impazzito, è uscito di senno. È normale che non capiscano. Ma proprio per questo, seguendo la natura dell’uomo è umano e razionale sottomettersi all’esperienza di quella realtà eccezionale, e continuare a seguire quello che evidentemente è stato riconosciuto dal cuore come qualcosa di mai visto e udito. Non sospendersi da questo rapporto. Fosse solo per le opere che Gesù ha compiuto in mezzo a loro. Ed è solo quello che ci supera, che evidentemente ci supera - tanto da farci emergere una domanda unica e mai posta davanti ad un’altra presenza - che solo può introdurci alla verità e all’esperienza di ciò che è e che afferma. È la nostra natura che esige semplice apertura, umile sequela per un idoneo dinamismo della libertà e della ragione. Subito dopo lo vediamo testimoniato dalla compagnia degli apostoli. Perché lo sconcerto e la mormorazione non si limitano solo alla folla o ai Giudei ma coinvolgono anche i discepoli. “I discepoli che lo avevano ascoltato dicevano: questo è un linguaggio duro, come possiamo accettarlo?”. È un linguaggio duro. Ma è duro il linguaggio di Gesù o è duro, ottuso, chiuso, presuntuoso il nostro ascolto? Se siamo concentrati su noi stessi e sulle nostre immagini intoccabili, se tutta la vita continua ad essere assicurata alla nostra inconsistente misurazione, già il cammino della comprensione e della conoscenza è radicalmente compromesso, comunque ostacolato, proprio da noi stessi che diciamo di voler capire. È normale non capire se ciò che deve essere conosciuto ci supera, supera la ragione. Non può non superare la ragione se l’oggetto della conoscenza è il Mistero. E l’oggetto della nostra costitutiva domanda e attesa, che segna il battito del nostro cuore, è proprio il Totalmente Altro da noi. Ed è proprio facile questa dinamica della conoscenza perché è solo il Totalmente Altro da noi che ci può introdurre alla sua rivelazione e al suo riconoscimento. Noi non dobbiamo fare altro che essere nella sincerità e nella coerenza della nostra natura e lasciarci introdurre dal Mistero che si presenta, si fa incontro e ci introduce e ci porta alla verità di sé e al modo del rapporto con Lui. Qual è la domanda che segna tutta la preghiera originale di ogni uomo e che ci viene testimoniata costantemente nella preghiera dei Salmi? – Mostrati Signore, perché se tu non ti mostri come potrò mai incontrarti? Questa è la domanda, ed è questa la vera dinamica a cui devono ubbidire la libertà e la ragione. Ed è un metodo continuo ed imprescindibile per la libertà e la ragione dell’uomo. Come faccio a comprendere l’Infinito se l’Infinito non si rivela me e non mi introduce Lui stesso a sé portandomi a comprenderlo e a riconoscerlo, secondo il metodo che Lui stesso stabilisce per facilitare a me questo suo riconoscimento. È assurdo perché irrazionale cercare una risposta alla conoscenza che sia il frutto della mia ragione, perché la ragione non è deputata a questo ma solo ad aprirsi alla realtà, per rendersi conto di ciò che vive e regna come consistenza nella realtà tutta. Si tratta di permanere in quell’atteggiamento che ha portato a far emergere di fronte alla presenza di Gesù quella domanda irrefrenabile e irresistibile su di Lui. Vi prego di essere seri e presenti in questo richiamo. Sappiamo bene come molti di noi, dopo il facile entusiasmo del primo incontro con la Compagnia, invece che andare fino in fondo, seguire fino in fondo il cammino indicato e datoci per lasciarsi introdurre alla verità e alla conoscenza piena di ciò che il cuore ha sentito per l’avvenimento incontrato, si sono arrestati al fenomeno aggregativo e partecipativo. Magari ritrovandosi a riattaccare la vita a ciò che sempre ha mostrato la sua inconsistenza e la sua disastrosa incapacità rispetto all’attesa del cuore. E dimostrando di non riconoscere la vita e il suo cuore per quello che sono; e Gesù come vera e decisiva risposta all’attesa della vita e unica corrispondenza del cuore. Fatto sta che dopo quelle parole di Gesù, molti dei suoi discepoli e di quella folla si tirarono indietro e andarono via da Lui. Ma Gesù non retrocede di un passo, anche a costo di rimanere solo. Tanto che, percependo anche nei suoi dodici amici più stretti una medesima difficoltà, li costringe ad emergere e a prendere una posizione. Lui conosce il loro cuore, Lui sa la profondità della loro affezione alla sua persona. E quello che Lui sa del loro cuore lo vuole far emergere. Lo fa usando questa provocazione: “Volete forse andarvene anche voi?”. Anche questa è una scena struggente e commovente. Immaginiamoci come questi uomini facciano fatica a guardarlo in faccia. Qualcuno cerca di guardare da un’altra parte per evitare lo sguardo di Gesù e non far trapelare questa difficoltà di comprensione. Sono realmente in difficoltà, perché è un linguaggio duro da accettare anche per loro.
Sono in difficoltà soprattutto perché realmente affezionati e attaccati a Lui. E Gesù allora interviene e li toglie dall’imbarazzo, e li fa emergere come nemmeno loro si aspettavano di emergere. Dice loro: “Volete andarvene anche voi?”. Simon Pietro, investito da questa domanda, si sente salire dal profondo del cuore, dal profondo di se stesso qualcosa che lo supera e che non riesce a contenere: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”. Sì, è vero, ancora una volta noi non comprendiamo queste parole, siamo sconcertati. Ma da chi andremo? Dove andare lontano da te? Come poterci allontanare e separare da te? Solo tu hai parole di vita eterna, solo tu hai parole che corrispondono a tutta l’attesa del cuore, solo tu hai parole che spiegano la vita come nessuno. Che aprono alla vita vera e che la spiegano fino in fondo. Se non crediamo a te, non è più possibile credere a qualcuno, a niente e a nessuno. Dovremmo negare la nostra stessa vita, i fatti, la realtà, i nostri stessi occhi, quello che le nostre mani hanno toccato, i nostri occhi hanno veduto, i nostri cuori hanno sentito. Tu solo meriti tutta la nostra vita e la nostra fiducia. Aiutaci a capire perché non capiamo: ma mai potremmo lasciarti. Nella risposta di Pietro che ci viene riportata dal Vangelo, non ci sono tutte queste espressioni ma siamo certi che sono contenute nella sua risposta immediata a Gesù. Perché quella immediatezza esprime, in maniera struggente, tutto il suo attaccamento, come affezione e certezza, a Gesù. Un attaccamento e un amore a Lui indiscutibile. E che apre ragionevolmente e continuamente ad una fiducia, ad un affidamento che scaturisce irresistibilmente proprio da ciò che il cuore stesso indica alla ragione e alla libertà di quegli uomini. Nessuno ha corrisposto all’attesa assoluta della vita come Lui. “Dove andare lontano da te?”, è una risposta razionale piena di affezione. Che sostiene in loro questo drammatico cammino della fede, cioè del riconoscimento pieno di Gesù. Questa dinamica si riafferma sempre e la ritroviamo testimoniata in più momenti della loro sequela.
Nicolino Pompei